1° Contenuto riservato: Licenziamento: la Corte Costituzionale boccia ancora le tutele crescenti

CIRCOLARE MONOGRAFICA

DI EMANUELE MAESTRI | 2 SETTEMBRE 2025

Cambia ancora il quadro delle tutele che operano a favore del dipendente che sia stato illegittimamente licenziato

Cambia ancora – a seguito di un ulteriore intervento della Corte Costituzionale – il quadro delle tutele che operano a favore del dipendente che sia stato illegittimamente licenziato. Questa volta la Consulta (con la Sentenza 21 luglio 2025, n. 118) ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 9, co. 1, del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti), limitatamente alle parole “e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”. Vediamo di cosa si tratta e come questa decisione impatta sulla disciplina vigente.

Premessa

Va ricordato che, nel nostro ordinamento le cose si sono molto complicate dopo l’entrata in vigore – avvenuta a partire dal 7 marzo 2015 – del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, che ha introdotto (esemplificando al massimo: per i nuovi assunti a tempo indeterminato) il regime delle c.d. tutele crescenti. Tale nuova regolamentazione prevedeva, almeno nella sua formulazione originaria, una disciplina di tutela meno rigida a favore del dipendente (in pratica: il diritto alla reintegrazione operava in un numero più limitato di ipotesi) nonché risarcimenti più contenuti (in pratica: il numero di mensilità spettanti al dipendente illegittimamente licenziato era inferiore rispetto al collega assunto prima, e soggetto alla Legge n. 604/1966 o all’articolo 18 della Legge n. 300/1970).

Ebbene, tale situazione è molto mutata sia per l’intervento del legislatore (basta pensare al c.d. Decreto Dignità del 2018) sia a seguito delle numerose sentenze rese dalla Corte Costituzionale.

Prima di illustrare le ultime novità, è quindi opportuno ricordare le premesse normative, posto che possiamo trovarci di fronte a un datore c.d. “grande” o “piccolo”, che può avere dipendenti soggetti o meno alle cd. tutele crescenti (c.d. “nuovi” o “vecchi”).

Datori “piccoli” e datori “grandi”

Se il dipendente impugna il licenziamento e ne contesta la legittimità, oltre alla sua data di assunzione (o conversione) a tempo indeterminato – ai fini dell’applicazione delle regole della Legge 15 luglio 1966, n. 604; della Legge 20 maggio 1970, n. 300; ovvero del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 – fondamentale rilevanza ha il numero dei lavoratori che si sono posti alle dipendenze di quel determinato datore.

La norma di riferimento è l’articolo 18, co. 8, della Legge 20 maggio 1970, n. 300, a mente del quale sono considerati come “grandi” o di maggiori dimensioni, i datori che ricadono in una di queste situazioni:

  1. hanno una sola unità produttiva – intesa come sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo in cui ha avuto luogo il licenziamento – nella quale prestano la propria attività più di 15 dipendenti (più di 5, se si tratta di imprenditore agricolo);
  2. hanno – all’interno del territorio del medesimo comune – due o più unità produttive, nelle quali, sommando tutti i lavoratori, prestano la propria attività più di 15 dipendenti (più di 5, se si tratta di imprenditore agricolo);
  3. hanno più unità produttive in diversi comuni e, sommando tutti i dipendenti occupati all’interno del territorio italiano, il datore di lavoro ne ha più di 60 (anche se nessuna unità produttiva, considerata da sola, supera la fatidica quota dei 15 dipendenti).

In tutti questi casi, quindi, il datore viene considerato “grande”; negli altri casi, ossia se ha meno dipendenti rispetto a quelli indicati appena sopra, invece, è considerato “piccolo”.

Tale distinzione non riguarda il caso del licenziamento discriminatorio, orale e nullo, rispetto al quale non vi è alcuna differenza, nei diversi regimi, tra datore “piccolo” e datore “grande”. In tale ipotesi, la sanzione per il datore è sempre la reintegrazione del dipendente, accompagnata da un’indennità economica minima di 5 mensilità

Lavoratori “vecchi” e lavoratori “nuovi”

Dal 2015, e precisamente dal 7 marzo di quell’anno, oltre al numero dei dipendenti, grande rilevanza ha anche la data in cui è stato assunto il lavoratore che viene licenziato (vi sono anche altre ipotesi, di cui diremo tra poco ma questa è certamente la più rilevante). In pratica, se il licenziamento è illegittimo, vale quanto segue indicato nella tabella che segue.

Tipo datoreTipo lavoratoreNorma applicabile
“piccolo”“vecchio”art. 8 Legge 15 luglio 1966, n. 604
“grande”“vecchio”art. 18 Legge 20 maggio 1970, n. 300
“piccolo”“nuovo”art. 9 D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23
“grande”“nuovo”art. 3 D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23

Ma quali sono i lavoratori “nuovi”, ossia quelli ai quali si applica il D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, che disciplina il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti? La risposta si trova nell’articolo 1 del medesimo D.Lgs. n. 23/2015, che considera tali:

  1. lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015;
  2. lavoratori assunti con contratto a termine o di apprendistato, che è stato convertito a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015;
  3. tutti i lavoratori (inclusi quelli assunti prima del 7 marzo 2015), nel caso in cui, a seguito di nuove assunzioni a tempo indeterminato avvenute dal 7 marzo 2015 in poi, il datore venga a integrare il requisito dimensionale di cui all’articolo 18, co. 8, della Legge 20 maggio 1970, n. 300.

Licenziamento discriminatorio, orale e nullo

In questa ipotesi, la disciplina posta a tutela del dipendente è, nella pratica, assai simile: essa, infatti, si differenzia solo per quanto concerne il criterio di calcolo, sia nel caso dei datori “grandi” o “piccoli” che dei lavoratori “vecchi” e “nuovi”. Per i dettagli si veda la tabella che segue.

Licenziamento discriminatorio, orale e nullo: il quadro delle tutele
DatoreDipendenteFonteDisciplina applicabile
“piccolo”“vecchio”art. 18, co. 13, Legge n. 300/1970Reintegrazione nel posto, più indennità minima pari a 5 mensilità della retribuzione globale di fatto(*)
“grande”
“piccolo”“nuovo”art. 2, co. 13, D.Lgs. n. 23/2015Reintegrazione nel posto, più indennità minima di 5 mensilità della retribuzione
di riferimento per calcolo del TFR(*)
“grande”
(*) Al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale.

Corte Costituzionale n. 118/2025: quali principi?

Nel dichiarare costituzionalmente illegittimo l’articolo 9, co. 1, del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti) – riguardante la tutela economica a favore di un nuovo dipendente (e, quindi, a tutele crescenti) di un datore di lavoro c.d. di minori dimensioni – limitatamente alle parole “e non può in ogni caso superare il limite di 6 mensilità”, la Consulta ha espresso l’auspicio che il legislatore intervenga sul profilo inciso dalla presente pronuncia, nel rispetto del principio, ivi affermato, secondo cui il criterio del numero dei dipendenti non può costituire l’esclusivo indice rivelatore della forza economica del datore e quindi della sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi, dovendosi considerare anche altri fattori altrettanto significativi, quali il fatturato o il totale di bilancio, da tempo indicati come necessari elementi integrativi dalla legislazione europea e anche nazionale.

Di seguito, caso per caso, vediamo quindi come tale decisione impatta “nella pratica” sulle tutele previste a favore del lavoratore.

Licenziamento disciplinare

Con riguardo a tale tipologia di recesso – ossia al licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, che venga poi dichiarato illegittimo da parte del giudice – sussistono differenze non da poco tra la Legge 15 luglio 1966, n. 604; l’articolo 18 della Legge n. 300/1970; e, infine, quanto previsto dal D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23. Per tutti i dettagli si veda la tabella che segue. Va peraltro evidenziato che la fattispecie che segue è stata modificata a seguito proprio della Sentenza n. 118/2025 della Corte Costituzionale.

Licenziamento disciplinare: il quadro delle tutele
DatoreDipendenteNormaFattispecieConseguenze
 “piccolo”“vecchio”art. 8 Legge n. 604/1966Tutte le ipotesiA scelta del datore: riassunzione o risarcimento del danno, da 2,5 a 6 mensilità(**)
 “grande”“vecchio”art. 18, co. 4, Legge n. 300/1970Insussistenza del fatto contestatoReintegrazione nel posto più indennità massima di 12 mensilità retribuzione globale di fatto(*)
Fatto punibile con sanzione conservativa
art. 18, co. 5, Legge n. 300/1970Tutte le altre ipotesiIl rapporto di lavoro è risolto ma il lavoratore ha diritto a un’indennità da 12 a 24 mensilità
 “piccolo”“nuovo”art. 9, co. 1, D.Lgs. n. 23/2015Tutte le ipotesiSolo risarcimento danno, da 3 a 18 mensilità(***)
 “grande”“nuovo”art. 3, co. 1, D.Lgs. n. 23/2015Generalità dei casiSolo risarcimento del danno da 6 a 36 mensilità
art. 3, co. 2, D.Lgs. n. 23/2015Insussistenza del fatto materialeReintegrazione nel posto più pagamento indennità di 12 mensilità(*)
Fatto punibile con sanzione conservativa(****)
(*) Al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale.
(**) La misura massima di tale indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai 10 anni, e fino a 14 mensilità per il lavoratore con anzianità superiore ai 20 anni, se dipendenti da un datore che occupa più di 15 prestatori.
(***) La situazione è stata modificata proprio da Corte Cost. n. 118/2025 , in precedenza l’importo spettante andava da 3 a 6 mensilità solamente.
(****) Tale ipotesi è stata aggiunta a seguito di quanto stabilito dalla Corte Costituzionale, con la Sentenza 16 luglio 2024, n. 129.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Con riguardo a tale tipologia di recesso (ossia quello per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa) le cose si fanno ancora più complicate, nel senso che – per i soli datori di lavoro “grandi”, che devono licenziare un dipendente “vecchio” – vi è anche l’obbligo di attivare la speciale procedura prevista dall’articolo 7 della Legge 15 luglio 1966, n. 604, che contempla uno o più incontri tra le parti presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro. Per tutti i dettagli si veda la tabella che segue.

Come nel caso del licenziamento disciplinare, anche nella fattispecie che segue, la norma è stata modificata dalla Sentenza n. 118/2025 della Corte Costituzionale.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: il quadro delle tutele
DatoreDipendenteNormaFattispecieConseguenze
 “piccolo”“vecchio”art. 8 Legge n. 604/1966Tutte le ipotesiA scelta del datore: riassunzione o risarcimento del danno, da 2,5 a 6 mensilità(**)
 “grande”“vecchio”artt. 18, co. 4 e 7, Legge n. 300/1970Insussistenza del fattoReintegrazione nel posto più pagamento indennità massima di 12 mensilità della retribuzione globale di fatto(*)
artt. 18, co. 5 e 7, Legge n. 300/1970Tutte le altre ipotesiIl rapporto è risolto ma al lavoratore spetta indennità da 12 a 24 mensilità
 “piccolo”“nuovo”art. 9, co. 1, D.Lgs. n. 23/2015Tutte le ipotesiSolo risarcimento del danno, da 3 a 18 mensilità(***)
 “grande”“nuovo”art. 3, co. 1, D.Lgs. n. 23/2015Tutte le altre ipotesiSolo risarcimento del danno, da 6 a 36 mensilità
art. 3, co. 2, D.Lgs. n. 23/2015Insussistenza del fatto materiale(****)Reintegrazione nel posto più pagamento indennità di 12 mensilità(*)
(*) Al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale.
(**) La misura massima di tale indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai 10 anni, e fino a 14 mensilità per il lavoratore con anzianità superiore ai 20 anni, se dipendenti da datore che occupa più di 15 prestatori.
(***) La situazione è stata modificata proprio da Corte Cost. n. 118/2025, in precedenza l’importo spettante andava da 3 a 6 mensilità solamente.
(****) La Corte Costituzionale, con Sentenza 16 luglio 2024, n. 128, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 3, co. 2, del D.Lgs. n. 23/2015, nella parte in cui non prevede che esso si applichi anche al recesso per GMO in cui si dimostri in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore.

Violazioni formali o procedurali

Inoltre, vi sono alcune ipotesi in cui il licenziamento è legittimo ma il datore ha violato una delle disposizioni particolari che disciplinano la forma del licenziamento (con particolare riguardo all’indicazione dei motivi del recesso contestualmente a esso) o la procedura da rispettare: tale ultima questione riguarda la contestazione degli addebiti (premessa indispensabile di ogni licenziamento disciplinare) nonché – per i soli datori di lavoro “grandi”, che devono licenziare per giustificato motivo oggettivo un dipendente “vecchio” – il rispetto della procedura da attivarsi per l’Ispettorato Territoriale del Lavoro ai sensi dell’art. 7 della Legge 15 luglio 1966, n. 604.

Per tutti i dettagli si veda la tabella.

Violazioni formali o procedurali: il quadro delle tutele
DatoreDipendenteViolazione Procedura disciplinareMancata comunicazione dei motiviViolazione procedura ITL (solo per GMO)
 “piccolo”“vecchio”Da 2,5 a 6 mensilitàDa 2,5 a 6 mensilitàNon applicabile
 “grande”“vecchio”Da 6 a 12 mensilitàDa 6 a 12 mensilitàDa 6 a 12 mensilità
 “piccolo”“nuovo”Da 1 a 6 mensilitàDa 1 a 6 mensilitàNon applicabile
 “grande”“nuovo”Da 2 a 12 mensilitàDa 2 a 12 mensilitàNon applicabile

In buona sostanza, il quadro normativo appare assai articolato, probabilmente anche in misura eccessiva, e ciò senza alcuna apparente ragione.

Offerta di conciliazione

L’art. 6 del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, per i soli lavoratori a tutele crescenti dispone che, in caso del loro licenziamento, al fine di evitare il giudizio e ferma la possibilità per le parti di addivenire a ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge, il datore può offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento (ossia entro 60 giorni), in una delle sedi di cui all’art. 2113, co. 4, del Codice civile, e all’art. 76 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, un importo che non costituisce reddito imponibile ai fini IRPEF e non è assoggettato a contribuzione previdenziale, di ammontare pari a 1 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 3 e non superiore a 27 mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare.

L’accettazione dell’assegno in tale sede da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta.

Le eventuali ulteriori somme pattuite nella stessa sede conciliativa a chiusura di ogni altra pendenza derivante dal rapporto di lavoro sono soggette al regime fiscale ordinario.

Anche tale disciplina, per le piccole e medie imprese è stata modificata a seguito proprio dalla Sentenza n. 118/2025 della Corte Costituzionale: in pratica, se l’offerta di conciliazione è formulata da un datore c.d. di minori dimensioni, l’importo che egli deve offrire al dipendente – se decide di seguire volontariamente questa via per chiudere sul nascere la vertenza – è pari a mezza mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, con un minimo di 1,5 mensilità per i primi 3 anni, che vanno poi aumentati appunto di mezza mensilità per ogni ulteriore anno di anzianità aziendale, con un massimo di 13,5 mensilità (se l’anzianità è pari o superiore a 27 anni presso il medesimo datore).

Conclusioni

La disciplina – specialmente per quanto concerne i c.d. datori di minori dimensioni – necessita certamente di un celere intervento normativo di riforma. Basti pensare che un datore c.d. piccolo, che licenzia senza valida giustificazione un dipendente:

  1. vecchio: paga da 2,5 a 6 mensilità (fino a 14 solo in casi particolari);
  2. nuovo: paga da 3 a 18 mensilità.

Quindi, gli importi previsti sono – con tutta evidenza – sproporzionati e non coerenti.

Inoltre, come evidenziato dalla Corte Costituzionale con la Sentenza 21 luglio 2025, n. 118il criterio del numero dei dipendenti non può costituire l’esclusivo indice rivelatore della forza economica del datore di lavoro (e quindi della sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi), dovendosi considerare anche altri fattori altrettanto significativi, quali possono essere il fatturato o il totale di bilancio.

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