CIRCOLARE MONOGRAFICA
DI EMANUELE MAESTRI, ELEONORA GALBIATI | 15 SETTEMBRE 2025
Il punto sulla disciplina vigente e le novità della sentenza n. 2261/2025 del Tribunale di Catania
L’evoluzione tecnologica, che vede nascere sempre nuovi strumenti di comunicazione, non può non produrre effetti anche sul rapporto di lavoro. Il Tribunale di Catania, con una recente Sentenza n. 2261/2025 , ha riconosciuto come valido dal punto di vista formale – ossia come intimato in forma scritta – il licenziamento di un lavoratore che era stato comunicato mediante una e-mail e un messaggio trasmesso via WhatsApp. Si propone il riepilogo della disciplina vigente e le novità della sentenza citata
Forma del licenziamento
L’articolo 2, co. 1, della Legge 15 luglio 1966, n. 604, dispone che il datore di lavoro, a prescindere dal fatto che si tratti di un imprenditore o di un non imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro (anche se si tratta di un dirigente). Il successivo co. 2 precisa che la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato.
Infine, ai sensi del successivo co. 3, il licenziamento intimato senza l’osservanza delle disposizioni di cui ai co. 1 e 2 è inefficace.
Al netto dei pochi casi in cui, in caso di licenziamento, la forma scritta non è richiesta – per esempio: patto di prova e recesso nei confronti di un collaboratore familiare – nelle altre ipotesi, a prescindere dall’organico, ossia dal numero di dipendenti in forza presso il singolo datore di lavoro, in caso di violazione le conseguenze sono assai “pesanti”.
Nella tabella che segue sono messe a confronto (con alcune abbreviazioni di tipo redazionale) le discipline di tutela – per i lavoratori assunti prima e dopo le c.d. “tutele crescenti” – nel caso in cui il datore di lavoro licenzi un dipendente senza forma scritta.
Dipendenti non a tutele crescenti (datori di lavoro piccoli e grandi) Articolo 18, co. 1–3, Legge n. 300/1970 | Dipendenti a tutele crescenti (datori di lavoro piccoli e grandi) Art. 2 D.Lgs. n. 23/2015 |
1. Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell’art. 3 della Legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’art. 35 del D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’art. 54, co. 1, 6, 7 e 9, del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 cod. civ., ordina al datore, imprenditore o meno, la reintegrazione del lavoratore, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati. Tale disposizione si applica anche ai dirigenti. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro 30 giorni dall’invito del datore, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità di cui al co. 3. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.2. Il giudice, con la sentenza di cui al co. 1, condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. 3. Fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al co. 2, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell’indennità deve essere effettuata entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione. | 1 Il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell’articolo 15 della Legge 20 maggio 1970, n. 300, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità di cui al co. 3. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.2 Con la pronuncia di cui al co. 1, il giudice condanna altresì il datore al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità e l’inefficacia, stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello della reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività. In ogni caso la misura del risarcimento non può essere inferiore a 5 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. Il datore è condannato, altresì, per il medesimo periodo, a versare i contributi previdenziali e assistenziali.3. Fermo il diritto al risarcimento del danno ex co. 2, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore, in sostituzione della reintegrazione, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell’indennità va effettuata entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall’invito del datore a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione. |
Come ben si evince, la disciplina di tutela a favore del lavoratore licenziato solamente in forma orale è assai simile: spetta sempre la reintegrazione accompagnata da un risarcimento minimo pari a 5 mensilità.
Comunicazione dei motivi
Se il recesso è stato comunicato in forma scritta ma altrettanta attenzione non è stata posta nella comunicazione scritta anche dei motivi del licenziamento, il lavoratore – ferma restando la validità della risoluzione del rapporto – ha sempre diritto al risarcimento del danno: qui le cose però si complicano, in quanto le varie discipline di tutela sono assai diversificate.
In pratica, vale quanto segue:
a) datore piccolo e dipendente vecchio assunto: da 2,5 a 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;
b) datore grande e dipendente vecchio assunto: da 6 a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;
c) datore piccolo e dipendente nuovo assunto: da 1 a 6 mensilità dell’ultima retribuzione per calcolo TFR;
d) datore grande e dipendente nuovo assunto: da 2 a 12 mensilità dell’ultima retribuzione per calcolo TFR.
Impugnazione
Se il lavoratore vuol far valere i propri diritti ha l’onere di impugnare il licenziamento – a pena di decadenza – entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, o dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la sua volontà anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto a impugnare il licenziamento stesso.
L’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 180 giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.
Revoca
Il datore che si sia reso conto di aver combinato un “pasticcio”, con particolare riguardo al licenziamento intimato solamente in forma orale, ha la possibilità – se agisce prontamente – di revocare il licenziamento, sottraendosi così alle pretese reintegratorie e/o risarcitorie del dipendente. Al riguardo, per le due diverse discipline oggi vigenti (peraltro assolutamente equivalenti), si veda la tabella che segue.
Dipendenti non a tutele crescenti (datori di lavoro piccoli e grandi) Articolo 18, co. 10, Legge n. 300/1970 | Dipendenti a tutele crescenti (datori di lavoro piccoli e grandi) Art. 5 D.Lgs. n. 23/2015 |
Nell’ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di 15 giorni dalla comunicazione al datore dell’impugnazione del medesimo, il rapporto si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente articolo. | Nell’ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di 15 giorni dalla comunicazione al datore dell’impugnazione del medesimo, il rapporto si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente decreto. |
Licenziamento via WhatsApp o e-mail
Detto tutto quanto sopra, merita ora di essere citata una interessante e recente decisione (si tratta della Sentenza 27 maggio 2025, n. 2261 ) con la quale il Tribunale di Catania si è espresso in ordine alla “validità” della comunicazione di licenziamento effettuata non in maniera “tradizionale” (la classica raccomandata con avviso di ricevimento) ma via e-mail e whatsapp.
Questi i fatti:
- un dipendente veniva licenziato il 30 aprile 2024 per giustificato motivo oggettivo;
- lo stesso ricorreva quindi al giudice lamentando la mancanza di forma scritta dell’atto di recesso;
- dall’istruttoria non è emersa prova del tentativo di consegna della lettera di licenziamento, e quindi del rifiuto a riceverla da parte del lavoratore;
- è però emersa la prova – non rilevante ai fini della dimostrazione del rispetto degli oneri formali richiesti per il licenziamento, ma del contegno assunto dal ricorrente – di una riunione tenutasi nel mese di marzo 2024, ove egli veniva previamente informato che sarebbe stato licenziato e che avrebbe potuto lavorare nel mese di preavviso, corrente nel mese di aprile 2024;
- è emersa anche la circostanza che i toni erano così distesi tra le parti che “... si concordò di sottoscrivere i documenti sul licenziamento in momento successivo“, circostanza che poi non si verificava perché, nonostante più volte chiamato, il ricorrente non si recava sul posto di lavoro per firmare i documenti;
- la corrispondenza intercorsa tra i responsabili aziendali e il ricorrente, dimostra che già il 16 aprile 2024 – dunque nel periodo di preavviso – il ricorrente veniva invitato a firmare “il preavviso”, dunque l’atto di licenziamento, ben comprendendo lo stesso ricorrente cosa volesse significare tale sollecito, rispondendo ad esso “non c’è più lavoro per me?”.
Dalla verifica di tali circostanze, il giudice ha tratto il convincimento che il dipendente fosse perfettamente a conoscenza del fatto che era in corso il suo licenziamento. A supporto di tale convincimento, la motivazione della sentenza in commento evidenzia quanto segue:
– il 16 aprile 2024 l’azienda – con un messaggio whatsapp – invitava il lavoratore a sottoscrivere “il preavviso”, e dunque lo si notiziava per iscritto, per mezzo di un documento informatico, del recesso;
– il 15 maggio 2024, sempre l’azienda, gli inviava una e-mail comunicandogli che era stato licenziato il 30 aprile precedente.
In conclusione, il Tribunale ha ritenuto che, con le comunicazioni del 16 aprile e (ove non ritenuta sufficiente) del 15 maggio successivo, il datore abbia comunicato anche per iscritto il licenziamento, non costituendo oggetto del presente giudizio la legittimità di tali forme di comunicazione che non sono state espressamente impugnate (né, su di esse, sono stati dedotti specifici motivi), che comunque escludono la tesi del licenziamento orale puro e semplice, quale quella prospettata, potendosi porre semmai un problema di decorrenza dell’efficacia del licenziamento, relativamente alla comunicazione e-mail del 15 maggio, sempre ove non si ritenesse idonea quella del 16 aprile precedente, ovvero del periodo di preavviso.
In buona sostanza, quindi, il giudice ha negato il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, non potendo in verità, la fattispecie in esame, inquadrarsi nella figura del licenziamento orale, ferma restando l’inefficacia di ogni comunicazione orale di licenziamento – e dunque la persistenza del rapporto – fino alla comunicazione scritta. Va poi aggiunto che il lavoratore, per sua stessa allegazione, offriva le energie lavorative solo in data 18 giugno 2024, dopo più di 1 mese dalla comunicazione scritta del licenziamento sicché, sotto il profilo squisitamente risarcitorio, l’atto di messa in mora non appare rilevante ed utile.
Ne è conseguito il rigetto della domanda del lavoratore e la convalida del licenziamento.
Conclusioni
Certo è che, fino al momento in cui la validità della comunicazione del licenziamento mediante strumenti di comunicazione “alternativi” non sarà pacificamente accettata dalla consolidata giurisprudenza (meglio se dalla Corte di Cassazione), è bene rifarsi a un criterio di prudenza, non dimenticando mai la classica raccomandata con avviso di ricevimento.
Riferimenti normativi:
- Legge 15 luglio 1966, n. 604, artt. 2, 6 e 8
- Legge 20 maggio 1970, n. 300, art. 18
- D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, art. 2
- Tribunale di Catania, Sentenza 27 maggio 2025, n. 2261
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