1° Contenuto riservato: Periodo di comporto e lavoratori disabili: l’intervento della Corte UE

CIRCOLARE MONOGRAFICA

DI EMANUELE MAESTRI | 6 OTTOBRE 2025

Durata del periodo di comporto in caso di malattia di lavoratori affetti da disabilità

A seguito dell’invio degli atti da parte del Tribunale di Ravenna (con Ordinanza del 4 gennaio 2024), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è espressa in merito alla durata del periodo di comporto in caso di malattia di lavoratori affetti da disabilità. Di seguito il punto sulla disciplina vigente e sui principi affermati dalla Corte del Lussemburgo.

Il periodo di comporto nel Codice civile

L’art. 2110, co. 1, cod. civ., dispone che, in caso d’infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge non stabilisce forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore la retribuzione o un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dagli usi o secondo equità.

Nei casi indicati sopra, l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’articolo 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità. In pratica, quindi, il datore – una volta spirato il termine finale del periodo di conservazione del posto in caso di malattia – può licenziare il dipendente, concedendo il preavviso lavorato, oppure erogando la corrispondente indennità sostitutiva.

Di norma il contratto collettivo (nazionale, territoriale o aziendale) regolamenta la durata del periodo di comporto in maniera differenziata in relazione alla categoria del prestatore (dirigente, quadro, impiegato e operaio), alla qualifica, e alla sua anzianità di servizio presso il medesimo datore di lavoro.

Non sono computabili nel periodo di comporto, i periodi di malattia dovuti all’inosservanza – da parte del datore di lavoro – del generale obbligo di garantire la salute e la sicurezza dei dipendenti, previsto dall’articolo 2087 cod. civ.; sono invece di norma computabili nel previsto periodo di conservazione del posto le assenze dovute a infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’articolo 2110 del codice civile (Cassazione, Ordinanza 30 luglio, n. 21242).

Infine, il periodo di assenza per una delle cause anzidette deve essere computato nell’anzianità di servizio.

Come prolungare il comporto

Accade con una certa frequenza che i contratti collettivi prevedano due distinti periodi di comporto:

  1. uno breve, che vige per la generalità dei casi, e
  2. uno prolungato, per le patologie più gravi, quali tumori, leucemie, e così via.

È quindi onere del lavoratore che sia colpito da una grave patologia dimostrare tale situazione al datore – esibendo regolari certificazioni mediche, normalmente provenienti da medici pubblici, ossia dell’ASL – onde fruire di un periodo di comporto di durata maggiore.

In base a quanto previsto dall’articolo 51 del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, per contratti collettivi si intendono:
a) i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale;
b) i contratti collettivi aziendali stipulati dalle rappresentanze sindacali aziendali (RSA) ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria (RSU).

Un’altra possibilità è costituita dalla facoltà concessa al lavoratore di chiedere di fruire – sempre al fine di sospendere il decorso del periodo di comporto e di evitare, in tal modo, il proprio licenziamento – di un periodo di ferie maturate e non ancora godute. Su tale questione la Corte di Cassazione (da ultimo, con Sentenza 14 aprile 2016, n. 7433), confermando il proprio orientamento, ha recentemente stabilito che – nel caso in cui il lavoratore chieda di fruire di un periodo di ferie residue per evitare il superamento del periodo di comporto – il datore che neghi tale possibilità ha l’onere di dimostrare di aver tenuto conto, nel rispondere in maniera negativa, del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore a evitare la perdita del posto; se tale prova non viene fornita (con particolare riguardo alla sussistenza delle ragioni organizzative che impediscono la concessione delle ferie maturate e non ancora godute), il licenziamento è illegittimo.

In aggiunta, meritano di essere ricordate almeno le seguenti decisioni:

Cass. ord. 21 settembre 2023, n. 26997: che ha dichiarato illegittimo il licenziamento della lavoratrice che, per evitare il licenziamento per superamento del periodo di comporto, abbia chiesto di fruire (in anticipo rispetto all’aspettativa non retribuita prevista dal contratto collettivo) del “pacchetto” di giorni di ferie già maturate ma non ancora godute;

→ Cass. ord. 17 maggio 2024, n. 13766: secondo la quale la richiesta di aspettativa, formulata da un lavoratore malato cronico, è valida anche se inoltrata prima dell’evento di malattia. Ne consegue che è nullo il licenziamento intimato in violazione di tale richiesta.

Malati oncologici: le novità

Da ultimo va evidenziato che l’articolo 1 della Legge 18 luglio 2025, n. 106, contiene rilevanti modifiche alla disciplina normativa vigente, prevedendo quanto segue:

  1. i dipendenti pubblici o privati, affetti da malattie oncologiche, o da malattie invalidanti o cronichean­che rare, che comportino un grado di inva­lidità minimo del 74%, pos­sono chiedere un periodo di congedo, continuativo o frazionato, non superiore a 24 mesi. Durante il periodo di con­gedo il dipendente conserva il posto, non ha diritto alla retribuzione e non può svolgere alcun tipo di attività lavorativa. Il congedo è compatibile con il concorrente godimento di eventuali altri benefìci econo­mici o giuridici e la sua fruizione decorre dall’esaurimento degli altri periodi di as­senza giustificata, con o senza retribuzione, spettanti a qualunque titolo. Il periodo di congedo non è computato nell’anzianità di servizio né ai fini previden­ziali. Il dipendente può comunque riscattare il periodo di congedo versando i relativi contributi, secondo quanto previsto per la prosecuzione volonta­ria dalla normativa vigente;
  2. la certificazione delle malattie di cui sopra è rilasciata dal medico di me­dicina generale o dal medico specialista, operante in una struttura sanitaria pubblica o privata accreditata, che ha in cura il lavora­tore;
  3. per le malattie in esame, la sospensione dell’esecuzione della presta­zione dell’attività svolta in via continuativa per il committente da parte di un lavoratore autonomo, di cui all’art. 14, co. 1, della Legge 22 maggio 2017, n. 81, si ap­plica per un periodo non superiore a 300 giorni per anno solare;
  4. decorso il periodo di congedo citato, il dipendente, per lo svolgimento della propria attività lavorativa, ha diritto ad accedere prioritariamente, se la prestazione lo consente, alla modalità di lavoro agile ai sensi del Capo II della Legge 22 maggio 2017, n. 81.

Sono comunque fatte salve le disposizioni più favorevoli pre­viste dalla contrattazione collettiva o dalla disciplina applicabile al rapporto di lavoro.

Comporto e lavoratori disabili

La più recente posizione della giurisprudenza nazionale – oltretutto espressa da parte della Corte di Cassazione – ritiene che configuri una discriminazione applicare al disabile il periodo di comporto nella misura ordinaria, ossia quella prevista per i lavoratori “normodotati” (Cass. ord. 7 gennaio 2025, n. 170).

Altra parte della giurisprudenza, per contro, si è espressa nel senso della legittimità di un licenziamento per superamento del periodo di comporto, nella misura stabilita dal contratto collettivo in maniera indifferenziata anche per i lavoratori disabili o portatori di handicap (Trib. Vicenza, ord. 9 marzo 2022). La questione, al momento, è priva di regolamentazione normativa, salvo i casi in cui una differenziazione di trattamento sia prevista dal contratto collettivo.

La fattispecie

Una lavoratrice era stata assente per malattia, giustificata da certificati medici, dal 18 giugno al 19 dicembre 2022, data in cui il datore l’ha licenziata, a seguito della scadenza del periodo massimo di conservazione del posto in caso di sospensione di un rapporto per malattia, previsto all’articolo 173 del CCNL, corrispondente a 180 giorni nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2022 e il 31 dicembre 2022.
Sebbene il primo certificato medico, relativo al periodo dal 18 giugno all’8 agosto e redatto in lingua tailandese, menzionasse il motivo dell’assenza, vale a dire un’emorragia subaracnoidea dovuta a una rottura di aneurisma, i certificati successivi, redatti da un medico generico italiano e attestanti l’incapacità della signora a lavorare fino all’8 gennaio 2023, non precisavano il motivo di assenza, cosicché il suo datore non poteva esserne a conoscenza, conformemente all’articolo 5 della Legge n. 300/1970.

Durante tale assenza per malattia, il 4 novembre 2022, la dipendente ha chiesto il riconoscimento amministrativo della sua disabilitàsenza informarne il datore; in data 17 febbraio 2023, ella ha ottenuto lo status legale di persona disabile e che la sua malattia è proseguita diversi mesi dopo il suo licenziamento, cosicché una ripresa del lavoro sembrava improbabile.

Il 16 ottobre 2023, la lavoratrice ha proposto ricorso al Tribunale di Ravenna, giudice del rinvio, facendo valere il carattere discriminatorio del licenziamento. Ella afferma, infatti, che l’art. 173 del CCNL, che prevede un periodo massimo di conservazione del posto di lavoro, non tiene conto della disabilità del lavoratore. Di conseguenza, chiede la reintegrazione nel posto o, in mancanza, il versamento di 15 mensilità di retribuzione, e il risarcimento del danno in misura pari alle mensilità di retribuzione non corrisposte dalla data del licenziamento alla sentenza, oltre al pagamento dei contributi previdenziali omessi nel corso di tale periodo, nonché il versamento di un risarcimento di importo pari a 10.000 euro a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale che deriverebbe dalla discriminazione fatta valere e il rimborso delle spese legali.

Il giudice del rinvio indica che, ai sensi del CCNL, un lavoratore assente per malattia ha il diritto di conservare il suo posto per un periodo di 180 giorni all’anno, durante il quale è retribuito dall’INPS e dal datore, il quale si fa carico di circa 2 mensilità di stipendio. Al termine di tale periodo, il lavoratore può chiedere, conformemente all’articolo 174 del CCNL, un’aspettativa supplementare unica e non retribuita di 120 giorni, salvo in caso di malattia cronica e/o psichica. In caso di malattia oncologica, il limite di 120 giorni può essere revocato ai sensi dell’articolo 175 del CCNL.

La posizione della Corte UE

Nel decidere il ricorso, la Corte europea ha stabilito quanto segue:

  1. l’art. 2, par. 2, e l’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che conferisce a un lavoratore assente per malattia un diritto alla conservazione del posto di lavoro per un periodo retribuito e rinnovabile di 180 giorni per anno civile, al quale può aggiungersi, in taluni casi e su richiesta di tale lavoratore, un periodo non retribuito e non rinnovabile di 120 giorni, senza istituire un regime specifico per i lavoratori disabili, a condizione che tale normativa nazionale:
    • non ecceda quanto necessario per conseguire la finalità di politica sociale consistente nell’assicurarsi della capacità e disponibilità del lavoratore a esercitare la sua attività professionale,
    • non costituisca un ostacolo al pieno rispetto dei requisiti previsti da tale articolo 5;
  2. l’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE va interpretato nel senso che una disposizione nazionale che prevede, a favore di un lavoratore assente per malattia, ma indipendentemente dalla sua eventuale disabilità, un periodo non retribuito di conservazione del posto di lavoro di 120 giorni, che si aggiunge a un periodo retribuito di conservazione del posto di lavoro di 180 giorni, non costituisce una “soluzione ragionevole”, ai sensi di tale articolo.

L’articolo 2, paragrafi 1 e 2, della Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, dispone quanto segue:

1. Ai fini della presente direttiva, per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1.
2. Ai fini del paragrafo 1:
a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;
b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o in una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che:
i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; o che
ii) nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi persona o organizzazione a cui si applica la presente direttiva sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all’articolo 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi.

Conclusioni

In buona sostanza, da un lato spetta al datore di lavoro il compito di adottare soluzioni ragionevoli le quali, senza costituire un onere eccessivo, possano consentire il mantenimento occupazionale; dall’altro, è il giudice nazionale a dover valutare, caso per caso, la congruità delle soluzioni adottate.

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