CIRCOLARE MONOGRAFICA
DI EMANUELE MAESTRI | 13 NOVEMBRE 2025
Il punto sull’istituto e focus sui principi affermati dalla Cassazione con Sentenza n. 26956/2025
A fronte di patologie particolarmente gravi, il dipendente spesso (in base alle previsioni dei contratti collettivi) ha diritto al prolungamento del periodo di conservazione del posto di lavoro. Tale diritto soggiace però a precisi obblighi formali, recentemente puntualizzati dalla Suprema Corte con la Sentenza 7 ottobre 2025, n. 26956. Di seguito il punto sull’istituto e il focus sui principi affermati dalla Cassazione.
Nozione di periodo di comporto
Ai sensi dell’art. 2110, co. 1, cod. civ., in caso di malattia – come pure di infortunio, gravidanza o puerperio – se la legge non stabilisce forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al dipendente la retribuzione o un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dagli usi o secondo equità: in tali ipotesi, l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto, a norma dell’art. 2118 cod. civ. (ossia dando il preavviso oppure erogando la cd. indennità sostitutiva), solo una volta che sia integralmente decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi, secondo equità o, normalmente, dai contratti collettivi (si tratta del cd. periodo di comporto).
Va ricordato che, salvo diversa previsione, per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quelli aziendali sottoscritti dalle loro rappresentanze sindacali aziendali o dalla rappresentanza sindacale unitaria (art. 51 D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81).
È possibile distinguere questi due tipi di comporto:
- secco: periodo di conservazione del posto stabilito (normalmente) dal contatto collettivo con riguardo a un unico episodio morboso di lunga durata, cioè tale da coprire senza interruzioni un notevole arco temporale (per esempio 180 giorni in 1 anno solare);
- per sommatoria: periodo di conservazione del posto in presenza di numerosi eventi di malattia di breve o media durata. Tale tipologia di comporto, la cui durata massima è stabilita dal contratto collettivo o, in mancanza, dal giudice, ha un doppio termine:
- c.d. esterno, ossia l’arco temporale considerato (per esempio 1 anno solare);
- c.d. interno, dato dalla somma di tutte le assenze per malattia (per esempio, sommando tutte le assenze, ove si raggiungano i 180 giorni nell’arco di 1 anno solare).
L’anno solare (che non coincide con quello civile) è quel periodo di tempo di 365 giorni che va da un giorno qualsiasi del calendario fino al giorno prima dell’anno precedente: per esempio, dovendo calcolare a ritroso un periodo di comporto per sommatoria di 180 giorni nell’anno solare con riferimento al 26 dicembre 2025 si devono computare tutti i giorni di assenza per malattia dal 27 dicembre 2024.
Infine, per espressa previsione normativa (art. 2110, co. 3, cod. civ.), il periodo di assenza per malattia (e per infortunio, gravidanza o puerperio) va computato nell’anzianità di servizio.
Durata
Di norma, la durata massima del periodo di comporto – espressa in giorni o mesi – è stabilita dai contratti collettivi applicati al rapporto. Molti di essi graduano la durata del periodo di comporto in relazione alla qualifica del lavoratore (dirigente, quadro, impiegato od operaio) e all’anzianità di servizio col medesimo datore, nonché a seconda che si tratti di patologie “ordinarie” o “molto gravi”.
Inoltre – come nel caso in esame – è frequente il caso in cui le parti collettive introducono previsioni più favorevoli per il dipendente,prolungando il comporto previsto dalla contrattazione o concedendo un’aspettativa, retribuita o meno. Quindi, non di rado, i contratti collettivi prevedono due distinti periodi di comporto:
- breve: per la generalità dei casi; e
- prolungato: che interessa solo le patologie più gravi (per esempio tumori, leucemie, e così via).
Al fine di fruire di un periodo di comporto di durata maggiore, il lavoratore che sia colpito da una grave patologia ha l’onere di dimostrare tale situazione al proprio datore, esibendo regolari certificazioni mediche, di norma rilasciate dalla competente ASL. Inoltre, egli ha la facoltà di chiedere – sempre per sospendere il decorso del periodo di comporto ed evitare così il licenziamento – di un periodo di ferie e/o di permessi maturati e non ancora utilizzati o di un periodo di aspettativa (di solito non retribuita).
Modalità di calcolo
Ferme le eventuali diverse previsioni del contratto collettivo, di norma, nel computo del comporto si considerano anche i giorni non lavorati(sabati, domeniche, festività infrasettimanali, eccetera), o che comunque ricadono nel periodo di malattia, dovendosi presumere la continuità dell’episodio morboso e, salvo che il lavoratore non dimostri il contrario, la sua indisponibilità.
Per la giurisprudenza, non sono computabili nel periodo di comporto i periodi di malattia o infortunio che siano dovuti all’inosservanza – da parte del datore – del generale obbligo di garantire la salute e la sicurezza dei dipendenti, previsto dall’art. 2087 cod. civ.
Se il contratto collettivo fa riferimento ai giorni di assenza (es.: 180 nell’arco di 1 o 2 anni), è tutto abbastanza semplice: si contano i giorni e alla “scadenza” o al “superamento” del termine previsto il datore può recedere per iscritto, motivando la risoluzione del rapporto previo rispetto del periodo di preavviso o, in alternativa, erogando la corrispondente indennità sostitutiva.
Invece, se il contratto collettivo fa riferimento ai mesi, le cose si complicano, poiché le assenze del lavoratore, di norma, sono conteggiabili in giorni e non in mesi interi.
Al riguardo, va citata Cass. 8 aprile 2019, n. 9751, la quale ha precisato che, per procedere alla conversione del mese in giorni, deve farsi riferimento – salva la diversa volontà delle parti – al calendario comune e non al criterio secondo cui il mese deve intendersi come unità convenzionale pari a 30 giorni.
Nel caso di specie, il lavoratore si era assentato per 545 giorni e il CCNL stabiliva un comporto pari a 18 mesi.
Quindi:
a. con la regola dei 30 giorni si ha il superamento (18 mesi x 30 giorni = 540 giorni);
b. al contrario, se il periodo di 18 mesi viene calcolato con il criterio c.d. della nominatione dierum, il comporto non è maturato (365 giorni / 12 mesi x 18 mesi = 547,5 giorni).
È preferibile la seconda soluzione perché esclude un criterio che si discosta dalla durata effettiva dell’anno, posto che, con il diverso computo (ossia considerando il mese sempre pari a 30 giorni), questo assommerebbe a 360 giorni e non a 365 (o 366 se l’anno è bisestile) come è da calendario.
Richiesta di ferie arretrate: l’orientamento della Suprema Corte
Questione molto delicata, affrontata dalla Cassazione nell’Ordinanza 8 gennaio 2024, n. 582, è quella della richiesta di ferie maturate ma non ancora godute da parte del dipendente che, visto l’approssimarsi del termine previsto per conservare il posto di lavoro, intende salvaguardare la sua occupazione. A tale riguardo, la Suprema Corte ha più volte affermato quanto segue:
- il lavoratore assente per malattia può mutare il titolo dell’assenza con la richiesta di fruire delle ferie già maturate al fine di sospendere il decorso del periodo di comporto;
- la facoltà del lavoratore di sostituire le ferie all’assenza per malattia per interrompere il decorso del comporto non è incondizionata; tuttavia il datore, vista tale richiesta, e nell’esercitare il potere (art. 2109, co. 2, cod. civ.) di stabilire la collocazione temporale delle ferie, armonizzando le esigenze dell’impresa e gli interessi del lavoratore, è tenuto a considerare e a valutare adeguatamente la posizione del lavoratore in quanto esposto, appunto, alla perdita del posto con lo scadere del comporto;
- resta fermo che, se il lavoratore può beneficiare di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del comporto, e in particolare quando le parti sociali abbiano a tal fine convenuto e previsto il collocamento in aspettativa, pur non retribuita, un simile obbligo non è ragionevolmente configurabile.
In pratica, secondo altra decisione (Cass. 14 aprile 2016, n. 7433), se il lavoratore chiede di fruire di un periodo di ferie residue per evitare il superamento del comporto, il datore che neghi tale possibilità deve dimostrare di aver tenuto conto, nel rispondere negativamente, del fondamentale interesse a evitare la perdita del posto; se tale prova non è fornita (con particolare riguardo alle ragioni organizzative che impediscono la concessione delle ferie maturate e non ancora godute), il recesso è illegittimo.
Forma e motivazione del licenziamento
Come per le altre ipotesi di recesso, l’intimazione del licenziamento per superamento del comporto deve avvenire, a pena di inefficacia, in forma scritta; ma non solo: infatti, sempre a pena di inefficacia, tale comunicazione deve altresì specificare i motivi (art. 2 della Legge 15 luglio 1966, n. 604): è evidente che in questa ipotesi la motivazione consiste nel superamento del comporto, e quindi nel fatto che la somma dei giorni di assenza per malattia fruiti dal dipendente supera il massimo consentito dal contratto collettivo.
Ne deriva che – se non altro per prudenza – il datore deve inserire nella lettera di licenziamento l’elenco dei giorni di assenza o deve allegare l’elenco. Peraltro, secondo altra giurisprudenza, il datore non è tenuto a specificare i singoli giorni di assenza, essendo sufficienti indicazioni più complessive, anche ex art. 2 Legge n. 604/1966, che impone la comunicazione contestuale dei motivi, fermo l’onere di allegare e provare compiutamente i fatti costitutivi del potere esercitato. Ciò, tuttavia, vale solo per il comporto c.d. “secco” (unico periodo di malattia), dove i giorni di assenza sono facilmente calcolabili dal lavoratore; invece, nel comporto c.d. “per sommatoria” (plurime e frammentate assenze) occorre un’indicazione specifica delle assenze computate, così da consentire la difesa al lavoratore (Cass. 16 marzo 2022, n. 8628). Ancora, l’incompleta indicazione dei giorni di assenza in presenza del superamento del comporto, ancorché non valga a inficiare il licenziamento, comporta il diritto del lavoratore al risarcimento del danno con un’indennità economica di importo (ove si applichi l’art. 18della Legge n. 300/1970) tra 6 e 12 mensilità (Cass. 2 marzo 2023, n. 6336 ).
Una volta comunicata l’intenzione di recedere, il datore deve far osservare al dipendente il periodo di preavviso stabilito dal contratto collettivo o può anche disporre l’immediata cessazione del rapporto: in tale ultimo caso, però, al lavoratore spetta un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso (art. 2118 cod. civ.).
Patologie “gravi”: condizioni per il comporto prolungato
Ed eccoci al casus belli, affrontato e risolto dalla Suprema Corte con la Sentenza 7 ottobre 2025, n. 26956. La Corte d’Appello di Ancona (con sentenza depositata il 20 febbraio 2023), riformando la decisione del tribunale, respingeva la domanda di un lavoratore volta a che fosse dichiarato illegittimo il licenziamento intimatogli per superamento del periodo di comporto il 3 giugno 2021.
Nel decidere in tal senso, i giudici marchigiani – viste le norme del contratto collettivo – ritenevano che il dipendente non avesse mai dimostrato di aver diritto al prolungamento del periodo di comporto, legato a “malattie particolarmente gravi”. Il dipendente ha quindi presentato ricorso per cassazione.
Ebbene, la Suprema Corte ha precisato quanto segue:
- la nozione di “malattia particolarmente grave” (al cui ricorrere il CCNL condizionava il prolungamento del periodo di comporto, negato nel caso di specie) ha natura elastica e, nell’esprimere il relativo giudizio di valore necessario a integrare il parametro generale contenuto nella clausola, il giudice deve interpretarla valorizzando il senso letterale della disposizione, i principi che vengono richiamati nell’intero atto negoziale e i fattori esterni relativi all’evoluzione della scienza medica, dando concretezza a quella parte mobile della medesima che le parti sociali hanno voluto tale per adeguarla a un dato contesto storico-sociale, ovvero a determinate situazioni non esattamente ed efficacemente specificabili “a priori”;
- nel caso di specie, la Corte territoriale si è conformata ai principi in materia ed è pervenuta alla corretta interpretazione del concetto generale di “malattie particolarmente gravi”. Invero, valutando il tenore testuale della singola clausola e di altre disposizioni contenute nello stesso contratto collettivo (ove, con riguardo ai permessi e congedi, si fa riferimento a situazioni soggettive, anche concernenti patologie, del lavoratore) nonché comparando le previsioni di altri CCNL che contengono riferimenti a “malattie gravi” del lavoratore e al relativo computo ai fini delle assenze, deve ritenersi che le patologie che consentono una parziale deviazione dai criteri di computo delle assenze siano le terapie salvavita ossia quelle connotate dalla gravità della condizione patologica e dalla necessità di trattamenti indispensabili alla sopravvivenza o al miglioramento della qualità della vita (tra le quali va inclusa la terapia di emodialisi);
- a tal fine, come espressamente richiesto dal contratto collettivo, il lavoratore è tenuto ad inviare la certificazione medica dalla quale risulti la sopravvenienza di una patologia grave che richieda una terapia salvavita: per contro, nel caso in esame, tutta la documentazione medica inviata dal lavoratore in azienda durante il periodo di assenza per malattia era priva della indicazione “patologia grave che richiede terapia salvavita”, con l’ulteriore precisazione secondo cui nessun valore di carattere medico-legale poteva essere attribuito allo scambio di messaggi whatsapp tra il lavoratore e il responsabile di filiale con cui si comunicava l’andamento e la natura della malattia.
Dal che è conseguito il rigetto del ricorso del lavoratore e la convalida del licenziamento.
In pratica, come principio generale, se ne può desumere che è onere del dipendente – se vuole conservare il posto di lavoro, mediante la fruizione di un periodo di comporto più esteso nel tempo – dimostrare compiutamente (con certificati medici e non con semplici messaggi whatsapp o e-mail) le proprie effettive condizioni di salute.
Regime di tutela in caso di licenziamento “anticipato”
Ai sensi dell’art. 18, co. 7, dello Statuto, in caso di licenziamento intimato da un datore c.d. grande (ossia con più di 15 dipendenti nell’unità produttiva o nel comune, o con più di 60 in Italia) a un dipendente “vecchio” (ossia non soggetto al c.d. contratto a tutele crescenti), in violazione dell’art. 2110, co. 2, cod. civ. – e dunque prima che sia “scaduto” il periodo di comporto – il giudice applica la medesima disciplina di cui al co. 4 dell’art. 18; in pratica, egli annulla il licenziamento e condanna il datore a: reintegrare il dipendente nel posto; pagare un’indennità risarcitoria fino a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto; versare i contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del recesso fino a quello della reintegra.
Peraltro, le Sezioni Unite della Cassazione, nella Sentenza 22 maggio 2018, n. 12568, per quel che qui rileva, hanno affermato i seguenti principi:
- il recesso per superamento del comporto costituisce una fattispecie autonoma, vale a dire una situazione di per sé idonea a consentirlo, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa ex art. 2119 cod. civ. o di giustificato motivo (oggettivo o soggettivo) ex art. 3 legge n. 604/1966;
- il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia (o anche per infortunio) del lavoratore ma prima del superamento del periodo massimo di conservazione del posto previsto, è nullo per violazione della norma imperativa ex art. 2110, co. 2, cod. civ. Da ciò deriva l’applicabilità del regime di tutela ex art. 18, co. 1–3, Legge n. 300/1970, i quali, rispettivamente, dispongono che:
- il giudice, con la sentenza che dichiara la nullità del licenziamento, ordina al datore (imprenditore e non) la reintegrazione del lavoratore, a prescindere dal numero di dipendenti occupati. Dopo l’ordine di reintegra, il rapporto si intende risolto se il lavoratore non ha ripreso servizio entro 30 giorni dall’invito del datore, salvo che abbia richiesto l’indennità sostitutiva;
- il giudice, con la sentenza di cui sopra, condanna altresì il datore a risarcire il danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui è stata accertata la nullità, con un’indennità non inferiore a 5 mensilità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del recesso fino a quello dell’effettiva reintegra, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative (più contributi previdenziali e assistenziali);
- fermo il diritto al risarcimento del danno, il lavoratore ha la facoltà di chiedere al datore, in sostituzione della reintegra, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (non assoggettata a contribuzione), la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto. La richiesta dell’indennità va effettuata entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza o dall’invito del datore a riprendere servizio, se anteriore a tale comunicazione.
Per i dipendenti assunti con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti non è previsto nulla. Tuttavia – ferma la “nullità” del recesso in base a quanto affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione con la citata Sentenza n. 12568/2018 – la Corte Costituzionale, con la Sentenza 22 febbraio 2024, n. 22, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 2, co. 1, del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, limitatamente alla parola “espressamente”, per quanto concerne i casi di nullità del licenziamento: ne discende che, anche per i “nuovi” dipendenti, la violazione del comporto comporta sempre la reintegrazione nel posto e il diritto al risarcimento del danno (in tale ipotesi, però, a partire da un minimo di 5 mensilità dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR).
Riferimenti normativi:
- Codice civile, art. 2110
- Legge 15 luglio 1966, n. 604, art. 5
- Corte di cassazione, Sentenza 7 ottobre 2025, n. 26956
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