1° Documento Riservato: Ristretta base societaria e accertamento fiscale: il diritto del socio a contestare il presupposto

CIRCOLARE MONOGRAFICA

DI MATTEO RIZZARDI | 10 OTTOBRE 2025

Socio di società a ristretta base partecipativa può contestare l’accertamento fiscale societario

La presunzione di distribuzione degli utili nelle società a ristretta base partecipativa, di origine giurisprudenziale, ha a lungo imposto un rigido automatismo probatorio a favore del Fisco. L’art. 7, comma 5-bis, D.Lgs. n. 546/1992 e l’ordinanza della Cass. n. 25680/2025 hanno ridimensionato tale impostazione, riconoscendo al socio il diritto di contestare anche l’esistenza del maggior reddito societario. Ne deriva un rafforzamento del principio di equità processuale e un onere probatorio più stringente per l’Amministrazione, che non può più limitarsi alla mera ristrettezza della compagine sociale.

La presunzione di distribuzione degli utili: tra inerzia del sistema e onere probatorio

Il contenzioso tributario relativo alle società di capitali a ristretta base partecipativa continua a rappresentare uno dei temi più dibattuti del diritto fiscale, incentrandosi sulla controversa presunzione di distribuzione degli utili occulti ai soci.

Questa presunzione, di matrice giurisprudenziale e non legale, muove dal presupposto che il limitato numero dei soci favorisca il controllo reciproco e la coesione, rendendo ragionevole supporre che gli utili in nero realizzati dalla società vengano spartiti tra i partecipanti, anche in assenza di una formale delibera di distribuzione.

Tradizionalmente, in presenza di maggiori utili accertati in via definitiva in capo alla società, questa presunzione determinava una micidiale inversione probatoria a favore del Fisco, ritenendo automaticamente avvenuta la spartizione tra i soci.

L’impostazione prevalente, spesso criticata come un “automatismo probatorio” privo di base legale, limitava fortemente la difesa del socio, il quale doveva fornire una prova contraria “vincolata”. Tale prova si rivelava estremamente ardua (probatio diabolica) in quanto il socio era tenuto a dimostrare che i maggiori utili fossero stati accantonati o reinvestiti nella società, un compito quasi impossibile per poste che non erano mai transitate in contabilità.

Questo “filone inerziale” è stato recentemente impattato dall’introduzione dell’art. 7, comma 5-bis, del D.Lgs. n. 546/1992. Tale novella, pur non escludendo tout court il valore probatorio delle presunzioni semplici, ha rafforzato l’onere probatorio a carico dell’Amministrazione finanziaria.

Ora, la dimostrazione della fondatezza della pretesa impositiva deve essere circostanziata e puntuale, esigendo che l’Ufficio produca prove concrete (come evidenze bancarie o incrementi patrimoniali non congrui) che dimostrino l’effettiva attribuzione delle somme al socio, non potendosi limitare alla mera ristrettezza della compagine.

Il diritto del socio a censurare il presupposto dell’accertamento societario

In questo contesto di ripensamento sull’onere della prova e sulla necessità di una maggiore equità processuale, assume rilievo fondamentale il diritto del socio di contestare l’esistenza stessa del maggior reddito accertato in capo alla società.

La giurisprudenza ha recentemente ribadito che, nel giudizio promosso dal socio in relazione al reddito di partecipazione, il giudice non può esimersi dall’esaminare le critiche che il socio abbia proposto in materia di maggiore reddito societario. Se la società non ha percepito un maggior reddito, infatti, “nulla ha potuto distribuire al socio”.

Il socio, pertanto, ha la legittimazione a censurare non solo la mancata distribuzione degli utili (dimostrando l’accantonamento, il reinvestimento, o l’appropriazione da parte di terzi o la propria estraneità alla gestione), ma anche l’infondatezza dell’accertamento societario presupposto.

Questa “impugnazione sostanziale” è cruciale, soprattutto quando l’accertamento societario non è divenuto definitivo per un giudicato sostanziale (ad esempio, a causa di omessa impugnazione o vizi procedurali da parte della società).

L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 25680/2025

L’ordinanza della Corte Suprema di Cassazione n. 25680/2025 (RGN 25277/2023), depositata il 19 settembre, fornisce un chiaro esempio dell’applicazione di questi principi in difesa del contribuente.

I fatti della controversia

La vicenda origina da un accertamento notificato dall’Agenzia delle Entrate (a seguito di un processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza) ad una s.r.l. (operante in costruzioni edilizie) per l’anno 2011, contestando maggiori ricavi non dichiarati (IRES, IVA, IRES).

L’accertamento traeva origine dalla presunta mancata fatturazione di maggiori ricavi, presumibilmente derivanti da una complessa operazione negoziale di permuta e successiva vendita di un immobile, con interposizione di soggetto (la moglie del titolare della ditta appaltatrice), asseritamente volta a nascondere ricavi non contabilizzati.

In virtù della ristretta base partecipativa della s.r.l., un avviso di accertamento veniva notificato anche al socio T.V. (detentore del 50% delle quote), contestandogli il reddito di partecipazione ai fini IRPEF.

La società e il socio impugnavano separatamente. La Corte di Giustizia Tributaria della Puglia (CTR) adottava decisioni contraddittorie: accoglieva il ricorso della società, annullando l’avviso di accertamento societario perché riteneva non provata la simulazione ipotizzata dall’Agenzia, ma rigettava l’impugnativa del socio T.V.

Il decisum della Cassazione

Il socio ha proposto ricorso in Cassazione denunciando la violazione degli artt. 112113115 e 116 c.p.c. per aver la CTR omesso di esaminare le censure di merito e la documentazione prodotta che contestavano l’effettivo conseguimento di un reddito societario non dichiarato.

La Cassazione, con la citata ordinanza, ha accolto il ricorso.

La Suprema Corte ha rilevato che la CGT di secondo grado si era concentrata sulla fondatezza della presunzione di distribuzione degli utili, limitandosi a indicare che il socio avrebbe potuto dimostrare che gli utili erano stati accantonati o reinvestiti.

La CTR aveva, di fatto, omesso di valutare le critiche di merito relative all’effettivo conseguimento del maggior reddito da parte della società.

Gli Ermellini hanno quindi ribadito con forza il principio secondo cui al socio di una società a ristretta base partecipativa è precluso contestare non solo la distribuzione dei maggiori utili, ma anche che tali maggiori redditi non siano stati affatto conseguiti dalla società.

La percezione del maggior reddito societario è il presupposto logico e fattuale della sua possibile distribuzione e della conseguente responsabilità fiscale del socio.

Riconoscendo che la CTR non aveva esaminato adeguatamente le censure proposte sin dal primo grado, la Corte ha accolto il ricorso di T.V. e cassato la decisione impugnata con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Puglia in diversa composizione.

La difesa sostanziale del socio e l’erosione dell’automatismo presuntivo

L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 25680/2025 non è un semplice decisum sul caso specifico, ma costituisce un fondamentale punto di approdo (non definitivo) nell’evoluzione del rapporto tra la ristretta base societaria e i diritti di difesa del socio.

Il principio ribadito dalla Cassazione, secondo cui il socio non solo può (e deve) fornire la prova contraria sull’impiego degli utili (accantonamento, reinvestimento o appropriazione da parte di terzi o assoluta estraneità alla gestione), ma ha soprattutto la facoltà di censurare l’infondatezza dell’accertamento societario presupposto, segna un passo essenziale verso la giustizia tributaria sostanziale.

Il giudice, nel valutare la pretesa fiscale personale (IRPEF) nei confronti del socio, non può limitarsi ad applicare automaticamente la presunzione di distribuzione degli utili basata sulla ristrettezza della compagine. Come chiarito dagli Ermellini, se la società non ha percepito un maggior reddito, nulla ha potuto distribuire al socio.

La percezione del maggior reddito societario è, per definizione, il presupposto logico e fattuale della possibile responsabilità fiscale del socio.

Questa “impugnazione sostanziale” è particolarmente rilevante, come si osserva nei commenti dottrinali, in tutte quelle ipotesi in cui l’accertamento societario sia divenuto definitivo non per una valutazione di merito (giudicato sostanziale), ma per vizi procedurali o, come spesso accade, per omessa impugnazione da parte degli organi sociali (magari nel contesto di procedure concorsuali o inerzia). In assenza di un giudicato sostanziale, negare al socio il diritto di contestare la base imponibile della società comprimerebbe gravemente il suo diritto di difesa autonomo.

Il nuovo onere probatorio alla luce dell’art. 7, comma 5-bis

Il decisum si inserisce nel più ampio ripensamento sulla ripartizione dell’onere probatorio nel processo tributario, stimolato dall’introduzione dell’art. 7, comma 5-bis, D.Lgs. n. 546/1992.

Questo nuovo comma, pur non eliminando tout court le presunzioni semplici, impone un maggiore sforzo istruttorio all’Amministrazione finanziaria.

L’Ufficio non può più limitarsi al mero richiamo della ristrettezza della base societaria come unica prova.

Deve invece dimostrare la pretesa in modo circostanziato e puntuale, producendo in giudizio prove concrete che attestino l’effettivo conseguimento delle somme da parte del socio (come, ad esempio, movimentazioni bancarie, incrementi patrimoniali o spese non coerenti con il tenore di vita dichiarato). La semplice ristrettezza societaria, infatti, è un mero elemento indiziario che richiede ulteriori riscontri gravi, precisi e concordanti.

Se, come rilevato nel commento dottrinale, il consolidato orientamento della Cassazione persiste ancora nel ritenere che la presunzione di distribuzione sia, di per sé, dotata dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, e dunque non richieda particolari sforzi istruttori aggiuntivi da parte del Fisco, pronunce più recenti (come la CGT I di Salerno richiamata) e l’ordinanza n. 25680/2025 in commento, spingono in direzione opposta, esigendo dal giudice una valutazione più incisiva e meno inerzialesul fondamento della pretesa.

Prospettive future tra giurisprudenza e delega legislativa

Nonostante il progresso giurisprudenziale dimostrato dalla Suprema Corte nel riconoscere la difesa sostanziale del socio, il quadro normativo è destinato a evolvere ulteriormente.

I principi di delega contenuti nella Legge 9 agosto 2023, n. 111, mirano a limitare l’uso della presunzione di distribuzione ai soli casi in cui si riscontrino, sulla base di elementi certi e precisi, componenti reddituali positivi non contabilizzati o costi inesistenti.

Inoltre, la Legge delega tende a confermare la natura di reddito finanziario (di capitale) dei proventi per i soci, ponendo un freno all’automatica imputazione “per trasparenza” tipica delle società di persone, prassi talvolta criticata e avallata dalla Cassazione in passato.

Tuttavia, come opportunamente evidenziato, questi principi di delega non sono ancora immediatamente esecutivi in assenza di una normativa attuativa.

In definitiva, l’ordinanza n. 25680/2025 conferma che la presunzione di distribuzione degli utili extracontabili è ormai sotto assedio, costretta a confrontarsi con i rafforzati principi del giusto processo e dell’onere della prova.

Essa ribadisce con forza che la ristretta base societaria può generare un sospetto, ma non un verdetto automatico: la difesa del socio deve necessariamente includere la possibilità di smantellare il presupposto oggettivo dell’evasione societaria, in quanto “se la società non ha percepito un maggior reddito, nulla ha potuto distribuire al socio”.

Questo orientamento garantisce che il contribuente non sia travolto da automatismi probatori slegati dalla realtà economica e dalla coerenza del sistema fiscale.

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