CIRCOLARE MONOGRAFICA
DI MASSIMILIANO TASINI | 29 OTTOBRE 2025
L’esterovestizione, tra normativa e giurisprudenza
Si esamina l’evoluzione del concetto di esterovestizione, evidenziando il progressivo spostamento interpretativo dalla configurazione dell’istituto quale fattispecie di abuso del diritto alla sua riconduzione nell’ambito dell’evasione fiscale.
Premessa
Nella nostra attività di studio, raccogliamo numerosi sfoghi di imprenditori, che lamentano una pressione fiscale e contributiva complessivamente insostenibile e che talora subiscono verifiche ed accertamenti che reputano ingiusti, a maggior ragione quando oggetto di rilievi non sono violazioni da sotto fatturazione e/o utilizzazione di fatture a fronte di operazioni inesistenti, bensì rilievi che attengono a profili più astratti e/o formalistici.
E, dopo questi sfoghi, in più occasioni gli imprenditori più fiaccati, o talora più spregiudicati, guardano alla fuga all’estero della propria società come la soluzione dei loro problemi.
Naturalmente, vi sono casi nei quali l’imprenditore sceglie soluzioni di puro artificio; quando l’imprenditore si determina su questa via, non serve un Professionista (la maiuscola è d’obbligo): semplicemente, vada per la sua strada.
Nel presente intervento, affronto invece alcuni profili relativi alla soluzione “sana”, ovvero di chi davvero intende trasferire la propria attività all’estero.
Soluzioni a confronto
Attorno al 2015 la Suprema Corte, nell’affrontare il caso di una nota casa di moda, è giunta ad un approdo interpretativo tendente a collocare l’esterovestizione nel solco delle fattispecie abusive. Ne sono esempio le sentenze Cass. n. 43809/2015 in ambito penale e Cass. n. 33234/2018e n. 35/2018 in ambito tributario, sostanzialmente allineate nei concetti: una società con sede legale in uno Stato estero può essere qualificata esterovestita solo se abbia posto in essere una costruzione di puro artifizio volta a conseguire esclusivamente un indebito vantaggio fiscale.
Le sentenze partono da due affermazioni fondamentali:
- se la società estera non è un simulacro l’esterovestizione non può essere contestata;
- senza la dimostrazione del vantaggio fiscale la contestazione di esterovestizione non regge.
Questa tesi è tuttora attuale come testimoniato dalle sentenze Cass. n. 5066/2023 e n. 5075/2023; la prima, in particolare, è relativa ad una società di trasporto slovacca ma con centro operativo in Italia: la Corte, pur respingendo la tesi del contribuente nel caso specifico, ribadisce che se la società estera è effettiva non ci sarebbe esterovestizione, poiché diversamente interpretando si determinerebbe una compressione del diritto di libero stabilimento nell’UE.
È mia opinione che questa tesi nasca da un equivoco interpretativo, precisamente una scorretta applicazione della sentenza CGUE, Grande Sezione, Cadbury Schweppes C-196/04 del 12 settembre 2006, la quale in effetti introduce un limite nel potere dei singoli Stati se la misura da questi adottata determina una compressione della libertà di stabilimento, ma è principio riferito alla disciplina CFC, la cui ratio non è quella di attrarre a tassazione in Italia la società estera, bensì di evitare il rinvio a tempo indeterminato della tassazione in Italia del reddito prodotto all’estero da società a bassa fiscalità. Tanto che la stessa CGUE, con la sentenza Centros C-212/97 del 9 marzo 1999, aveva precisato che gli Stati membri sono liberi di determinare autonomamente i criteri di collegamento con il loro territorio (adottando norme interne o convenzionali) con il solo limite di adottare misure che restringano la libertà di stabilimento.
Sta però progressivamente consolidandosi una tesi alternativa, figlia di una lettura che reputo più coerente con il quadro normativo, che colloca il fenomeno della esterovestizione non nel solco dell’abuso del diritto (con correlato obbligo dell’Amministrazione finanziaria di dimostrare l’esistenza di un risparmio di imposta ed altresì di accordare le regole e garanzie fissate dal 10 bis dello Statuto dei diritti del Contribuente), bensì in quello dell’evasione (Cass. n. 40214/2021, n. 1374/2022 e n. 1753/2023).
Ragionando a contrario, le conseguenze sono evidenti: occorre valutare se siano stati rispettati i precetti dell’art. 73 del Testo unico delle imposte sui redditi n. 917/1986, che identifica i soggetti passivi dell’IRES, senza che assuma rilievo la presenza di un risparmio di imposta e senza che il contribuente possa godere delle citate garanzie.
È evidente la necessità di addivenire ad una pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite, tanto più che la stessa Corte, con riferimento all’ambito penale, ha più volte affermato che le costruzioni di puro artificio rientrano nel solco dell’evasione.
Nell’attesa che il dibattito trovi un componimento, irrompe il legislatore, modificando le norme di riferimento.
Il D.Lgs. n. 209/2023, art. 2, riformula infatti l’art. 73, comma 3, TUIR: i concetti di
- oggetto principale e
- sede dell’amministrazione
vengono sostituiti con quelli di sedi di
- direzione effettiva (intesa come la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti la società nel suo complesso) e di
- gestione ordinaria in via principale (intesa come il continuo e coordinato compimento degli atti della gestione corrente riguardanti la società nel suo complesso).
In entrambi i casi si veda quanto illustrato dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 20/2024.
Si tratterà di capire gli effetti pratici di tali modifiche, tenendo conto che, con riferimento al concetto di
- sede dell’amministrazione: Cass. n. 7080/2012 e n. 24872/2020 ha ritenuto trattarsi del luogo in cui viene effettivamente esercitata la “alta direzione” dell’impresa, concetto che evoca dunque il luogo di “sede effettiva” in contrapposizione a quello formale di “sede legale”, e dunque il luogo in cui hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione della società e si convocano le assemblee, cioè il luogo deputato o stabilmente utilizzato per l’accentramento, nei rapporti interni e con i terzi, degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso delle attività dell’ente;
- luogo dove si realizza l’oggetto sociale: qui, Assonime, nella circolare n. 67/2007 ha ritenuto trattarsi del luogo nel quale effettivamente si svolge l’attività.
Quindi, concetti che rischiano di sovrapporsi, con notevole difficoltà di cogliere il confine dei nuovi profili.
I rischi penali
Un breve cenno ai rischi penali nei quali incorre l’imprenditore accusato di esterovestizione.
La riforma del sistema sanzionatorio non ha modificato il quadro di riferimento. Il reato configurabile è quello di omessa presentazione della dichiarazione, previsto e punito dall’art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000, che così recita:
1. È punito con la reclusione da due a cinque anni chiunque al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte ad euro cinquantamila.
1-bis. È punito con la reclusione da due a cinque anni chiunque non presenta, essendovi obbligato, la dichiarazione di sostituto d’imposta, quando l’ammontare delle ritenute non versate è superiore ad euro cinquantamila.
2. Ai fini della disposizione prevista dai commi 1 e 1-bis non si considera omessa la dichiarazione presentata entro novanta giorni dalla scadenza del termine o non sottoscritta o non redatta su uno stampato conforme al modello prescritto.
Sotto altro profilo, si rileva che alla fattispecie risulta applicabile la confisca ex art. 12-bis del D.Lgs. n. 74/2000, poiché istituto obbligatorio sia in caso di condanna che di patteggiamento del reato ex art. 444 c.p.p.; non è invece applicabile la confisca allargata di cui all’art. 12-ter dello stesso Decreto, poiché prevista solo per i reati di cui agli artt. 2, 3, 8, 11, commi 1 e 2, e sempreché sia superata la soglia ivi indicata.
Uno sguardo all’IVA
Il tema esterovestizione ai fini IVA è di strettissima attualità dopo la recente sentenza Cass. n. 3386/2024, secondo cui le regole sulla residenza valgono anche per le imposte indirette. La sentenza riguarda un caso di conferimento di immobile da persona fisica residente in Italia a società residente in UK, tassata in misura fissa ma contestata dall’Agenzia delle Entrate, in quanto ritenuta commessa in evasione di imposta del 9%, poiché la società UK in realtà avrebbe il centro principale dei propri interessi in Italia.
La sentenza afferma che il meccanismo di riqualificazione della residenza è operante anche nelle imposte indirette, tra cui l’IVA, poiché attuativo del principio di giusta imposizione di matrice Costituzionale.
Conclusioni
L’imprenditore che intende trasferire la propria società all’estero deve certamente creare una struttura effettiva. Questa condizione è infatti necessaria, e pur tuttavia non sufficiente, atteso che occorrerà comunque rispettare le regole fissate dall’art. 73 TUIR, vecchio o nuovo che sia.
Allo stesso modo, eventuali attività di due diligence poste in essere su strutture già esistenti devono rispettare tali principi. E varrà quanto, in fine dei conti, sostenuto dalla circolare n. 20/2024 dell’Agenzia delle Entrate, ovvero che l’indagine non potrà che essere svolta caso per caso.
Riferimenti normativi:
- D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 73;
- D.Lgs. 27 dicembre 2023, n. 209, art. 2;
- Agenzia delle Entrate, circolare 4 novembre 2024, n. 20/E.
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