COMMENTO
DI GIOVANNI IMPROTA | 18 DICEMBRE 2025
L’utilizzo del congedo parentale per attività estranee all’accudimento diretto del figlio integra abuso del diritto ex art. 32D.Lgs. n. 151/2001 e può giustificare il licenziamento disciplinare, ove risulti lo sviamento della finalità dell’istituto e la violazione dei doveri di correttezza e buona fede nei confronti del datore di lavoro, valutate le circostanze del caso concreto, così la Corte di cassazione con Ordinanza n. 24922/2025 .
Il congedo parentale
Il congedo parentale – disciplinato dal D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 – costituisce uno strumento cardine per conciliare lavoro e famiglia, in quanto consente ai genitori di dedicarsi alla cura dei figli nei primi anni di vita e nel contempo garantisce al bambino uno sviluppo affettivo e relazionale adeguato grazie alla presenza del genitore.
L’istituto del congedo parentale può essere richiesto:
- dalla madre, dopo il congedo di maternità obbligatorio;
- dal padre, anche contemporaneamente alla madre, o successivamente, per prendersi cura del bambino.
La durata massima del congedo parentale è di 10 mesi, che possono essere suddivisi tra madre e padre, con la possibilità di prolungamento fino al dodicesimo anno di vita del bambino, ma con modalità diverse in caso di eventuali periodi di congedo non utilizzati.
In relazione alle modalità di fruizione del congedo parentale, giova precisare che:
- per la madre, il congedo parentale può iniziare dopo il periodo di maternità obbligatoria (5 mesi complessivi, di cui 2 mesi prima del parto e 3 dopo);
- per il padre, il congedo parentale è utilizzabile fino al compimento del dodicesimo anno di vita del bambino.
Inoltre, il congedo può essere:
– continuativo, con una durata ininterrotta;
– frazionato, suddiviso in periodi più brevi, compatibilmente con le esigenze familiari e lavorative.
Sotto il profilo economico, la retribuzione durante il congedo parentale è pari al 30% della retribuzione media giornaliera per un massimo di 6 mesi.
Il caso concreto e il contenuto della decisione della Corte di cassazione
Il fatto
Il caso riguardava un lavoratore, padre di un bambino di 3 anni, il quale aveva usufruito di un periodo esteso di congedo parentale (46 giorni continuativi) teoricamente destinato all’accudimento del figlio. Il datore di lavoro, sospettando un uso distorto del congedo, aveva incaricato investigatori privati di monitorare la situazione.
All’esito di tale attività investigativa, era emerso che, durante la fruizione del congedo, il dipendente era stato colto a prestare attività lavorativa presso uno stabilimento balneare gestito dalla moglie, senza quindi occuparsi della cura del figlio.
A seguito di tale comportamento, il datore di lavoro aveva avviato nei confronti dell’interessato specifico procedimento disciplinare conclusosi con l’applicazione della sanzione del licenziamento disciplinare in tronco per giusta causa.
In primo grado, il Tribunale adito aveva accolto il ricorso del lavoratore, ritenendo probabilmente non provata la gravità dello sviamento o comunque insussistente la giusta causa, mentre in secondo grado la Corte d’Appello, ribaltava la decisione accertando la sussistenza dell’abuso del congedo parentale e dichiarando quindi legittimo il recesso datoriale.
Avverso tale sentenza, il lavoratore ricorrente proponeva quindi ricorso per cassazione.
Decisione della Cassazione
Con l’Ordinanza n. 24922/2025 in esame, la Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso del lavoratore, confermando la legittimità del licenziamento disciplinare.
Rispetto alle motivazioni contenute nel ricorso depositato dal ricorrente – secondo cui il suo comportamento non integrasse un abuso meritevole di licenziamento, soprattutto in ragione del fatto che le attività estranee alla cura erano state limitate a pochi giorni e per poche ore – la Suprema Corte ha ribadito il principio per il quale anche condotte non sistematiche, episodiche ma finalizzate a scopi estranei alla cura del figlio, possono integrare un abuso del diritto e giustificare il licenziamento per giusta causa.
Analizzando le motivazioni sostenute dalla Corte di Cassazione, si rileva come il diritto al congedo parentale rappresenti per il lavoratore un diritto facoltativo del genitore, che può decidere se e quando fruirne nei limiti di legge, senza che il datore possa opporvisi.
Tuttavia, la Suprema Corte evidenzia anche che la natura potestativa del congedo non implica un diritto al suo uso arbitrario o discrezionalesenza controllo.
Ciò significa che sebbene il lavoratore possa autonomamente decidere di astenersi dal lavoro per ragioni parentali, le modalità concrete di esercizio di tale diritto possono essere verificate ex post alla luce degli obblighi contrattuali e della finalità legislativa per cui il beneficio è concesso.
In altri termini il datore di lavoro – anche tramite i mezzi di controllo consentiti dall’ordinamento, come investigazioni private esterne nei limiti della legalità – può accertare se l’assenza sia effettivamente finalizzata allo scopo protetto (la cura del figlio) oppure no.
In caso di utilizzo deviato rispetto alla funzione, il comportamento del lavoratore non resta insindacabile solo perché egli formalmente esercitava un suo diritto: al contrario, scatta la possibilità di sanzionare l’abuso del diritto.
Infatti, secondo la Corte di Cassazione ogni utilizzo del congedo parentale per fini diversi dalla cura diretta del figlio costituisce un abuso del diritto.
Ciò in quanto la ratio legis dell’istituto impone infatti uno stringente nesso causale tra l’assenza dal lavoro e l’esigenza familiare tutelata: “l’assenza dal lavoro per la fruizione del congedo deve porsi in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l’assistenza al figlio”. Ne consegue che “lo svolgimento di qualunque altra attività che non si ponga in diretta relazione con detta cura, costituisce un abuso del diritto potestativo del congedo parentale”.
Peraltro, l’abuso del congedo comporta per il lavoratore un indebito percepimento dell’indennità economica prevista per tale astensione (generalmente erogata dall’INPS), deviando le risorse assistenziali pubbliche dallo scopo per cui sono stanziate.
Si tratta quindi di un comportamento lesivo anche degli interessi dell’ente previdenziale e, in ultima analisi, della collettività, oltre che del singolo datore di lavoro.
Osservazioni critiche e implicazioni pratiche
La pronuncia in esame offre importanti spunti di riflessione sul piano applicativo.
Infatti, lato lavoratore, tale pronuncia rappresenta un chiaro monito, ossia utilizzare il congedo parentale per lo scopo per cui esso è concesso, con la conseguenza che un uso distorto di tale istituto pone il lavoratore di fronte al serio rischio di incorrere in una grave violazione contrattuale al punto tale da legittimare l’applicazione della massima sanzione espulsiva del licenziamento per giusta causa.
Lato datore di lavoro, tale pronuncia consente alle Aziende di agire con fermezza agli abusi dei dipendenti.
Infatti, in presenza di fondati sospetti che un lavoratore stia sfruttando indebitamente un congedo parentale, il datore è legittimato – nel rispetto delle norme sul controllo a distanza e sulla privacy – a verificare i fatti e, qualora accerti lo sviamento, ad assumere provvedimenti disciplinari fino al licenziamento in tronco.
La giurisprudenza di legittimità avvalora dunque l’utilizzo di strumenti investigativi leciti (come agenzie investigative private) per raccogliere evidenze dell’abuso. Ciò consente alle aziende di tutelare la propria organizzazione e la correttezza nei rapporti di lavoro, senza subire passivamente comportamenti opportunistici.
Di riflesso, è auspicabile che i datori di lavoro continuino però a bilanciare il legittimo controllo con il rispetto della dignità e riservatezzadei dipendenti, riservando tali interventi ai casi in cui vi siano seri indizi di abuso.
Riferimenti normativi:
- D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151
- Corte di cassazione, Ordinanza 9 settembre 2025, n. 24922
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