COMMENTO
DI MATTEO RIZZARDI | 13 NOVEMBRE 2025
La sentenza della Corte di Cassazione n. 34191/2025 ribadisce la responsabilità penale dell’amministratore di diritto, anche se mero prestanome, nei reati tributari dichiarativi. La Corte riconosce la configurabilità del dolo specifico nella forma del dolo eventuale, quando l’accettazione della carica avviene con consapevolezza dei rischi e dell’illiceità dell’attività. Viene inoltre richiamato l’onere motivazionale del giudice in tema di confisca, con particolare riguardo alla proporzionalità e all’autonomo accertamento del profitto del reato.
Premessa
Il tema della responsabilità penale tributaria dell’amministratore di diritto, mero “prestanome” o “testa di legno”, costituisce un nodo ermeneutico di costante rilievo nell’applicazione del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74.
La questione si pone quando la titolarità formale della rappresentanza legale non coincide con l’effettivo potere di gestione e direzione della società, che è invece esercitato da un dominus (amministratore di fatto).
In materia di reati tributari “dichiarativi”, quali la dichiarazione fraudolenta (art. 2 D.Lgs. n. 74/2000) o la dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. n. 74/2000), si è consolidato un orientamento di legittimità che attribuisce al legale rappresentante formale una responsabilità a titolo diretto, superando in questi specifici casi l’applicazione della clausola di garanzia di cui all’art. 40, comma 2, c.p. (omesso impedimento dell’evento).
Tale impostazione si fonda sul dato normativo che impone specifici obblighi di adempimento dichiarativo. Gli artt. 1, comma 4, e 8, comma 6, D.P.R. n. 322/1998, stabiliscono infatti che le dichiarazioni relative alle imposte dirette e all’IVA, per i soggetti diversi dalle persone fisiche, devono essere sottoscritte da colui che ne ha la legale rappresentanza, e solo in sua assenza, da chi ne ha l’amministrazione, anche di fatto.
In virtù di questo obbligo ex lege, l’amministratore di diritto è considerato l’autore principale della condotta, indipendentemente dalla sua effettiva ingerenza nella gestione societaria.
L’accertamento dell’elemento soggettivo: dolo specifico e dolo eventuale
Sebbene la responsabilità per i reati dichiarativi si configuri in capo all’amministratore di diritto per effetto dell’obbligo legale, la condanna richiede comunque la prova del necessario elemento psicologico, ovverosia il dolo specifico di evasione.
La giurisprudenza di legittimità ritiene che il dolo specifico, pur essenziale, sia compatibile con il dolo eventuale. Il dolo eventuale si ravvisa nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione (contenente dati non veritieri o l’uso di documenti per operazioni inesistenti) possa comportare l’evasione delle imposte.
Per superare la mera accettazione formale della carica da parte del prestanome – il quale potrebbe invocare l’estraneità e l’ignoranza dei fatti gestori – è indispensabile che il giudice di merito individui elementi fattuali convergenti e ulteriori.
Tali elementi sintomatici sono idonei a dimostrare che l’amministratore di diritto fosse consapevole di accedere all’altrui proposito illecito, reso attuabile o agevolato dalla propria condotta.
Tra gli indizi di particolare valenza si annoverano: la macroscopica illegalità dell’attività svolta, unita alla consapevolezza di tale illegalità; l’esistenza di un tornaconto personale; la consapevolezza di criticità gestionali o, ancora, l’accettazione della carica pur sapendo che l’amministratore di fatto intendeva evitare di comparire per “rischi” legati ad aspetti della società.
Commento alla sentenza della Corte di Cassazione n. 34191/2025
La recente pronuncia della Corte di Cassazione, sez. III pen., n. 34191 del 20 ottobre 2025, offre un’importante conferma e un chiarimento su alcuni profili procedurali e sostanziali relativi alla responsabilità dell’amministratore di diritto per il reato di dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. n. 74/2000).
L’infondatezza delle censure sull’elemento soggettivo
Nel caso di specie, l’amministratore unico di una s.r.l., condannato in relazione al reato di dichiarazione infedele, aveva ricorso in Cassazione sostenendo di essere un mero prestanome, ignaro dei fatti illeciti e della presunta inesistenza di una società estera emittente fatture.
I giudici di merito, con statuizione confermata in sede di legittimità, hanno concordemente escluso l’ipotesi del prestanome inconsapevole.
La Corte ha valorizzato plurime indicazioni:
- il contesto fiduciario e la consapevolezza dei rischi: è stato evidenziato il rapporto risalente e fiduciario con il dominus e l’accettazione della carica amministrativa pur essendo pienamente consapevole che l’amministratore di fatto non volesse comparire ufficialmente “per ragioni legate ad aspetti evidentemente di rischi che correva”;
- il ruolo non marginale: nonostante la presunta esautorazione dalle funzioni gestionali, l’amministratore di diritto svolgeva funzioni essenzialiall’interno della società, tra cui docente nei corsi di formazione e coordinatore di altre unità. Tale ruolo attivo rendeva inverosimile l’ignoranza sul fatto che l’attività professionale svolta e coordinata fosse soggetta al pagamento dell’IVA (a causa del mancato riconoscimento della società da parte della Pubblica Amministrazione);
- l’applicazione del dolo eventuale: sulla base di tali elementi, la Corte d’Appello ha correttamente configurato il dolo specifico del reato nella forma del dolo eventuale, ribadendo l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’amministratore di diritto non era un soggetto marginale, ma era a conoscenza dei meccanismi e dei potenziali rischi connessi alla realtà imprenditoriale in cui operava.
Lo spunto critico sulla questione documentale e la tempistica processuale
Un profilo critico di rilievo nel ricorso atteneva alla violazione dei diritti di difesa e del contraddittorio, lamentando la mancata acquisizione agli atti di documenti fondamentali richiamati dal teste d’accusa durante la sua deposizione (quali spesometro, verbali del contraddittorio, ecc.).
La Suprema Corte ha rigettato tale censura per una duplice motivazione.
In primo luogo, ha richiamato il principio secondo cui gli atti processuali inseriti nel sistema ministeriale Tiap (Trattamento informatico atti processuali) sono pienamente utilizzabili dal giudice e si intendono conosciuti dalle parti, purché visualizzabili secondo le modalità regolamentate. Poiché il Pubblico Ministero aveva precisato che gli atti erano “tipizzati”, la difesa avrebbe potuto e dovuto accedervi.
In secondo luogo – e qui emerge la vena critica sul rigore processuale – la Corte ha giudicato la censura tardiva.
Si è sottolineato che, di fronte al “mancato scioglimento” della riserva di produzione documentale da parte dell’accusa, il difensore avrebbe dovuto eccepire immediatamente e formalmente la nullità in primo grado, ai sensi dell’art. 182, comma 2, c.p.p.
L’accettazione della situazione e la successiva proposizione della questione solo in appello hanno reso il motivo inammissibile sotto il profilo della tempestività.
Confisca e proporzionalità: l’onere motivazionale del giudice
L’unica doglianza accolta dalla Cassazione riguarda la statuizione relativa alla confisca, che è stata ritenuta fondata, imponendo l’annullamento con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Milano per un nuovo giudizio sul punto.
La Corte ha censurato la motivazione della sentenza impugnata, la quale si era limitata a confermare la confisca con un mero richiamo ai dati contenuti negli avvisi di accertamento.
Questo approccio è stato ritenuto carente sotto due aspetti: sia per la necessità di un autonomo accertamento giudiziale delle risultanze dell’indagine amministrativa, sia per il totale silenzio sulla questione della proporzionalità dell’intervento ablativo, sollevata dalla difesa in considerazione del ruolo marginale svolto dal ricorrente rispetto alla figura dell’effettivo dominus emersa nel corso del giudizio.
Tale annullamento parziale sottolinea che, pur affermando la responsabilità del prestanome (anche in virtù della compatibilità con il dolo eventuale), il giudice penale conserva un onere rigoroso di motivazione e valutazione autonoma in merito alla quantificazione del profitto del reato e alla proporzionalità della misura ablatoria, specialmente quando la figura del gestore di fatto (il dominus) sia chiaramente delineata.
Riferimenti normativi:
- D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, artt. 1 e 8;
- D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 2 e 4;
- Cass. pen., sez. III, 20 ottobre 2025, n. 34191.
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