COMMENTO
DI MATTEO RIZZARDI | 21 OTTOBRE 2025
L’ordinanza della Cassazione n. 26885/2025 ribadisce la responsabilità fiscale del contribuente per illeciti commessi dall’intermediario. Il contributo analizza l’interpretazione restrittiva dell’esimente ex art. 6, comma 3, D.Lgs. n. 472/1997. Si chiarisce che il soggetto delegante risponde delle sanzioni se non dimostra l’assenza di culpa in vigilando e l’effettiva frode del professionista. Vengono discusse le implicazioni pratiche per imprenditori e professionisti riguardo l’elevato onere probatorio a carico del mandante.
Introduzione: inquadramento del principio
Nel panorama del contenzioso tributario, emerge con costante frequenza il tema della responsabilità del contribuente per gli illeciti commessi dall’intermediario incaricato degli adempimenti fiscali.
La giurisprudenza di legittimità ha assunto un orientamento consolidato, ponendo sul contribuente un onere probatorio particolarmente gravoso per potersi esimere dalle sanzioni.
Affidare a un professionista la gestione della contabilità e degli obblighi tributari, infatti, non costituisce di per sé un’assoluzione dalla frode o dall’inadempimento, poiché permane l’obbligo in capo al mandante di vigilare sull’operato del professionista prescelto.
Il nucleo della questione risiede nella dimostrazione dell’assenza assoluta di colpa (difetto dell’elemento soggettivo).
In mancanza di tale prova, il contribuente è chiamato a rispondere dell’illecito, anche sotto il profilo sanzionatorio, solidalmente con il professionista.
Il caso della Corte di Cassazione: ordinanza n. 26885/2025
La recente ordinanza della Corte Suprema di Cassazione n. 26885/2025 (r.g.n. 22339/2018), depositata il 7 ottobre 2025, ribadisce con fermezza tale impostazione.
La vicenda trae origine dal ricorso proposto da SC s.r.l., avverso una cartella di pagamento, emessa a seguito di controllo automatizzato ai sensi degli artt. 36-bis del D.P.R. n. 600/1973 e 54-bis del D.P.R. n. 633/1972.
L’atto recava l’iscrizione a ruolo di un importo complessivo di 1.865.224,01 euro per IRES e IVA, interessi e sanzioni, a causa dell’assunto indebito utilizzo in compensazione di un credito risultato non effettivo e omessi versamenti di IVA.
La società contribuente, senza contestare il merito della ripresa fiscale, aveva riversato la responsabilità per il mancato assolvimento degli obblighi tributari su altra società incaricata di gestire la contabilità (F. s.r.l.). Chiedeva, in via subordinata, lo sgravio delle sanzioni applicando l’art. 6, comma 3, del D.Lgs. n. 472/1997.
La Commissione tributaria regionale della Lombardia aveva rigettato l’appello, confermando la sentenza di primo grado.
Il giudice di appello aveva ritenuto non imputabile alla società incaricata la responsabilità per il mancato assolvimento degli obblighi tributari, essendo “la colpa dell’imprenditore ravvisabile anche nel caso di affidamento a soggetti estranei all’amministrazione dell’azienda la tenuta dei libri e scritture contabili in quanto su di esso gravava oltre l’onere di una oculata scelta del professionista anche quello di controllarne l’operato”.
Anche le sanzioni risultavano, pertanto, correttamente applicate.
La Corte di Cassazione, accogliendo la visione della C.T.R., ha rigettato il ricorso.
Le doglianze rigettate in Cassazione: tra inammissibilità e infondatezza
Il ricorso in Cassazione della contribuente si basava su due complessi motivi:
- il primo motivo denunciava la carenza e contraddittorietà della motivazione della C.T.R., in particolare rispetto alle censure di carenza di motivazione della cartella (quale primo atto impositivo) e di mancata instaurazione del contraddittorio preventivo.
La Corte ha ritenuto il primo motivo inammissibile per diversi profili.
In primis, per difetto dei requisiti di specificità e autosufficienza richiesti dall’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c. e per non rientrare nelle categorie logiche tassative dell’art. 360 c.p.c.
In secondo luogo, la denuncia di manifesta carenza e contraddittorietà della motivazione, è un vizio non più censurabile in Cassazione a seguito della nuova formulazione dell’art. 360, n. 5, c.p.c. (applicabile ratione temporis).
Le censure relative alla carenza di motivazione e al mancato contraddittorio preventivo erano inammissibili anche perché non attinenti al decisum della C.T.R.: il giudice di appello le aveva già ritenute inammissibili ai sensi dell’art. 57, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992, in quanto proposte ex novo in sede di gravame, e non nell’originario ricorso. come affermato dalla Corte: “la proposizione, mediante il ricorso per Cassazione, di censure prive di specifica attinenza al “decisum” della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del ricorso per mancanza di motivi che possano rientrare nel paradigma normativo”. - Riguardo al secondo motivo, che verteva sulla responsabilità dell’incaricato e l’applicazione delle sanzioni, la Cassazione ha rilevato che la censura sulla responsabilità era infondata, mentre quelle relative al mancato esercizio dei poteri istruttori e all’autonoma motivazione delle sanzioni erano inammissibili o infondate.
La dottrina della culpa in vigilando e l’esimente dell’art. 6, comma 3, D.Lgs. n. 472/1997
Il fulcro della decisione di merito, confermato in Cassazione, risiede nella valutazione della culpa in vigilando della contribuente.
La contribuente aveva tentato di avvalersi dell’esimente di cui all’art. 6, comma 3, D.Lgs. n. 472/1997, il quale stabilisce che non è punibile il contribuente che dimostri che il pagamento non è stato eseguito “per fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi”.
La Corte Suprema ha ribadito che tale esimente opera solo a condizione che il contribuente, oltre ad aver denunciato il fatto all’Autorità giudiziaria, non abbia tenuto una condotta colpevole, “nemmeno sotto il profilo della culpa in vigilando”.
Di conseguenza, l’esimente è esclusa “laddove, pur in presenza di denuncia all’autorità giudiziaria del fatto imputabile al terzo, il contribuente non dia anche prova in ordine all’assolvimento a monte dell’obbligo di vigilanza sul puntuale e corretto adempimento del mandato da parte dell’intermediario”.
Nel caso di specie, la C.T.R., con motivazione ritenuta congrua e scevra da vizi logici-giuridici, aveva riconosciuto la colpa della società.
La ricorrente, che si era avvalsa di F. s.r.l. per la contabilità, non aveva provato l’assenza di propria colpa, non avendo assolto l’onere di vigilanza sull’operato della società intermediaria.
La giurisprudenza richiede espressamente che, in caso di dichiarazioni errate o fraudolente attribuibili al professionista infedele, il contribuente fornisca la prova non solo dell’attività di vigilanza e controllo concretamente esercitata (come farsi consegnare le ricevute telematiche), ma anche del “comportamento fraudolento del professionista, finalizzato proprio a mascherare il proprio inadempimento all’incarico ricevuto, quindi anche mediante falsificazione di modelli F24 di pagamento delle imposte o delle ricevute di ricezione delle dichiarazioni telematiche o attraverso altre modalità di difficile riconoscibilità da parte del mandante”.
Riflessioni sulla responsabilità professionale – Prospettive di tutela
La decisione della suprema Corte, in linea con l’orientamento consolidato (cfr. Cass. n. 35612/2022 e Cass. n. 13358/2025), ribadisce la preminenza dell’interesse erariale alla riscossione, vincolando la responsabilità sanzionatoria al contribuente anche in presenza di un intermediario infedele.
Dal punto di vista professionale, si deve rilevare che la dottrina della culpa in vigilando, così come interpretata, impone al contribuente che si avvale di un professionista di fatto di duplicare, o quantomeno sovrintendere strettamente, gli adempimenti delegati. L’imprenditore non solo ha l’onere di una “oculata scelta del professionista”, ma anche quello di “controllarne l’operato”.
Il requisito di dimostrare che il comportamento del professionista sia stato “fraudolento” e “finalizzato proprio a mascherare il proprio inadempimento” – ad esempio, tramite la falsificazione dei documenti – eleva l’asticella probatoria a un livello quasi insormontabile per un soggetto non esperto, il quale si affida al professionista proprio per la complessità della materia.
La Corte ha anche implicitamente respinto la difesa basata sul titolo di studio del contribuente (titolare di scuola secondaria superiore di perito meccanico nel caso di una pronuncia analoga citata), affermando che chi esercita attività imprenditoriale risponde degli adempimenti fiscali in ogni caso.
La professione deve prendere atto di questa severità: l’incarico professionale non solo non esclude la responsabilità fiscale dell’imprenditore, ma in caso di contenzioso, è necessario fornire la prova documentale (ricevute telematiche, riscontri sui pagamenti) che l’attività di controllo sia stata effettivamente esercitata in modo diligente.
La mera denuncia penale non è sufficiente.
Infine, si nota l’attenzione procedurale della Cassazione, che rigetta molti motivi per difetto di specificità o per mancata introduzione nei gradi precedenti (art. 57, D.Lgs. n. 546/1992).
La rigida applicazione del principio di autosufficienza e dei limiti all’introduzione di nuove questioni in appello (come la carenza di motivazione della cartella), sottolinea la necessità per i professionisti di articolare sin dal primo grado di giudizio tutte le doglianze, sia di merito che di rito.
In definitiva, l’ordinanza n. 26885/2025 rafforza la visione secondo cui, nell’ambito tributario, la responsabilità del contribuente per la scelta e la vigilanza dell’intermediario è un pilastro inamovibile del sistema, limitando drasticamente le possibilità di esonero sanzionatorio per fatti imputabili a terzi.
Riferimenti normativi:
- D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 6;
- Cass., sez. trib., ord. 7 ottobre 2025, n. 26885.
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