3° Contenuto Riservato: Fondo patrimoniale: quando i beni della famiglia diventano “protetti”

COMMENTO

DI MATTEO RIZZARDI | 26 NOVEMBRE 2025

Il fondo patrimoniale serve a tutelare i beni destinati ai bisogni della famiglia, ma la protezione non è assoluta. La Cassazione ha ribadito che i beni possono essere aggrediti dai creditori se i debiti, anche tributari, sono legati all’attività che sostiene il nucleo familiare. Spetta al debitore provare che l’obbligazione sia estranea ai bisogni familiari e che il creditore ne fosse consapevole.

La funzione di segregazione patrimoniale

Il fondo patrimoniale si configura come una particolare convenzione matrimoniale, disciplinata dagli artt. 167 e seguenti del Codice civile (c.c.), in base alla quale determinati beni – ovvero beni immobili, beni mobili registrati o titoli di credito – vengono destinati a far fronte ai bisogni della famiglia.

L’istituto realizza un patrimonio separato con un vincolo di destinazione specifico, sottraendo i beni conferiti al principio generale di responsabilità patrimoniale sancito dall’art. 2740 c.c.

La ratio principale del fondo patrimoniale risiede nella tutela degli interessi familiari e nella sicurezza economica del nucleo, inteso nel suo senso più ampio (coniugi e soggetti a carico, inclusi figli maggiorenni non economicamente autosufficienti).

L’efficacia protettiva del fondo è legata indissolubilmente all’art. 170 c.c., norma che stabilisce la regola cardine in materia di esecuzione forzata.

Secondo la richiamata disposizione, l’esecuzione sui beni del fondo e sui loro frutti non può avere luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai “bisogni della famiglia”.

L’opponibilità del fondo all’azione esecutiva è, dunque, subordinata alla ricorrenza di una duplice condizione:

  1. La destinazione funzionale del debito a scopi estranei alla famiglia (elemento oggettivo).
  2. La conoscenza di tale destinazione da parte del creditore (elemento soggettivo).

L’interpretazione estensiva e il criterio identificativo dei bisogni familiari

La definizione del concetto di “bisogni della famiglia” è cruciale per delineare i limiti di operatività dell’istituto. La giurisprudenza di legittimità adotta ormai un orientamento estensivo e non restrittivo di tale nozione.

Non si considerano inclusi solo gli aspetti strettamente indispensabili alla mera sussistenza, ma anche le esigenze volte al “pieno mantenimento e all’armonico sviluppo della famiglia, nonché al potenziamento delle sue capacità lavorative”.

Il criterio adottato sembrerebbe di natura negativa, escludendo dall’ambito della tutela solo i bisogni di carattere voluttuario (ad esempio, acquisto di lusso) o quelli caratterizzati da intenti meramente speculativi (ad esempio, investimenti ad alto rischio).

Sotto il profilo soggettivo, i bisogni vanno inoltre valutati con riferimento all’indirizzo di vita familiare concordato dai coniugi, tenendo conto delle loro condizioni economiche e del ceto sociale di appartenenza.

L’applicazione di questa disciplina alle obbligazioni tributarie presenta insidie significative. Inizialmente, si riteneva che la natura ex lege del debito d’imposta, non essendo “contratta” volontariamente, mal si conciliasse con i requisiti dell’art. 170 c.c., né con l’elemento soggettivo della conoscenza da parte di un creditore pubblico come l’Erario.

Tuttavia, il filone giurisprudenziale consolidato, inaugurato dalla sentenza n. 15862/2009 e ribadito, più di recente, dall’ordinanza n. 5834/2023, ha chiarito che il criterio identificativo dei crediti aggredibili sui beni del fondo non risiede nella natura dell’obbligazione (contrattuale, legale, o tributaria), bensì nella relazione esistente tra il fatto generatore di essa e i “bisogni della famiglia”.

Si è affermato, in sostanza, che la correlazione tra debito tributario e necessità familiari non può essere stabilita aprioristicamente, ma deve essere verificata in concreto, caso per caso. Pertanto, anche i debiti tributari sorti per l’esercizio di attività professionali o d’impresa non sono esclusi in via di principio, se da tale attività la famiglia trae i mezzi di mantenimento.

L’onere della prova e il rigore applicativo della Cassazione

La deroga al principio di responsabilità patrimoniale richiede un’applicazione rigorosa dei requisiti stabiliti dall’art. 170 c.c.

In tal senso, la giurisprudenza ha stabilito che l’onere della prova dei presupposti per l’impignorabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale grava sul debitore opponente.

Il coniuge debitore è tenuto a dimostrare non solo l’esistenza e l’opponibilità del fondo, ma anche che l’obbligazione sia stata contratta per scopi estranei alle esigenze familiari, a prescindere dalla natura del debito.

Per quanto riguarda i debiti derivanti dall’attività imprenditoriale o professionale, non si può escludere a priori la loro inerenza ai bisogni familiari.

La Suprema Corte ha tuttavia precisato che l’inerenza diretta e immediata riguarda di norma le esigenze dell’attività stessa, potendo assolvere al soddisfacimento dei bisogni familiari solo indirettamente (ossia, se e nella misura in cui i proventi dell’attività vengano utilizzati per adempiere ai doveri coniugali ex art. 143 c.c.).

Non incombe, infatti, sui coniugi un obbligo generalizzato di destinare tutti i propri proventi ai bisogni della famiglia, sussistendo un potere di disposizione pieno, salvo il limite di contribuire alle necessità familiari.

Ordinanza della Corte di Cassazione (n. 29111/2025)

La recente ordinanza della Suprema Corte si pone in linea con l’orientamento consolidato della giurisprudenza, cassando la pronuncia di merito della Commissione Tributaria Regionale (CTR) del Molise.

Il caso di specie vedeva l’impugnazione di una comunicazione preventiva di iscrizione ipotecaria relativa a debiti tributari.

La CTR aveva accolto il ricorso, ordinando la cancellazione dell’ipoteca, in parte per sproporzione (motivo che la Cassazione ha ritenuto fondato, chiarendo che l’art. 77 del D.P.R. n. 602/1973 fa riferimento al valore per il quale l’ipoteca è iscritta, pari al doppio del credito, e non al valore complessivo degli immobili ipotecati) e in parte perché riteneva che i debiti fiscali, in assenza di prove contrarie, dovessero considerarsi sorti per scopi estranei ai bisogni della famiglia, deducendolo per presunzioni fondate sulla sola natura tributaria delle obbligazioni.

La Suprema Corte ha censurato questa impostazione (violazione e falsa applicazione dell’art. 170 c.c. e dell’onere della prova ex art. 2697 c.c.).

Il primo errore di diritto commesso dalla CTR è stato quello di ritenere sufficiente, per escludere l’inerenza ai bisogni familiari, la sola natura tributaria dell’obbligazione.

Il Giudice di merito, pur richiamando correttamente il principio che esclude l’automatica estraneità del debito tributario, ne ha fatto cattiva applicazione, omettendo di verificare se il debitore avesse allegato e provato altri fatti specifici dai quali desumere che le obbligazioni fossero sorte per finalità voluttuarie o speculative, come richiesto dall’ampia accezione dei bisogni familiari.

Il secondo errore di diritto ha riguardato l’elemento soggettivo.

La CTR ha accolto l’appello ritenendo sussistente il solo requisito oggettivo dell’estraneità, senza accertare se l’Amministrazione creditrice fosse a conoscenza delle finalità per le quali le obbligazioni erano state contratte.

La Cassazione ha ribadito che la conoscenza dell’estraneità da parte del creditore è un requisito imprescindibile per l’illegittimità dell’iscrizione ipotecaria.

Tale conoscenza non può essere dedotta dalla semplice pubblicità legale del fondo (annotazione a margine dell’atto di matrimonio o trascrizione), poiché queste formalità non permettono di risalire all’origine causale delle specifiche obbligazioni.

In definitiva, la Suprema Corte ha cassato la sentenza, ribadendo che l’onere di dimostrare la doppia condizione (estraneità oggettiva e conoscenza soggettiva del creditore) spetta sempre al contribuente che si oppone all’esecuzione.

Il bilanciamento degli interessi: il criterio principale sul quale basarsi in casi simili

La varietà di interpretazioni e il consolidamento giurisprudenziale dimostrano le insidie nell’applicazione dell’art. 170 c.c. al debito erariale.

L’orientamento “casistico”, ribadito dalla giurisprudenza più recente (inclusa l’ordinanza n. 5834/2023 e la n. 29111/2025), opta per una soluzione mediana che scongiura sia il divieto generalizzato di esecuzione per crediti tributari (che favorirebbe un uso abusivo del fondo, pregiudicando l’interesse pubblico alla riscossione), sia la tesi opposta dell’inerenza per definizione di tutti i debiti tributari ai bisogni della famiglia.

Questo non facile lavoro di accertamento è rimesso al giudice di merito, il quale deve valutare in concreto la relazione tra il fatto generatore del debito fiscale e i bisogni familiari, intesi nel loro senso più ampio.

Data la natura pubblica dell’Erario, il requisito della conoscenza soggettiva da parte del creditore non deve essere inteso in senso rigido, ma può essere desunto da presunzioni semplici, purché fondate su fatti oggettivamente rilevanti e inquadrabili nella disciplina del regime patrimoniale familiare.

Il rigore della prova richiesto al debitore mira a circoscrivere la nozione di obbligazione contratta per i “bisogni della famiglia”, evitando che ogni singola ricchezza individuale, potenzialmente idonea ad apportare un beneficio anche indiretto al nucleo, sia automaticamente schermata.

In tal modo, si garantisce che lo strumento di segregazione sia utilizzato per la sua finalità istituzionale, senza che si traduca in una generale immunità fiscale a danno della collettività.

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