3° Contenuto Riservato: Scioglimento societario e liquidazione giudiziale nel CCII

COMMENTO

DI MATTEO RIZZARDI | 16 DICEMBRE 2025

Il Codice della Crisi e dell’Insolvenza (CCII), in vigore dal 2022, ha ridefinito il perimetro d’azione degli organi amministrativi di fronte a situazioni di dissesto, enfatizzando il dovere di attivarsi senza indugio per l’adozione degli strumenti idonei al superamento della crisi o, in ultima istanza, per l’apertura della liquidazione giudiziale.

Introduzione giuridica e normativa

L’ordinamento societario, parallelamente alle procedure concorsuali, in particolare per le società di capitali (S.p.A., S.a.p.a. e S.r.l.), prevede un insieme tassativo di cause di scioglimento, elencate dall’art. 2484, comma 1, c.c. Tali cause includono, tra le altre, il decorso del termine, l’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale, la riduzione del capitale al di sotto del minimo legale o l’impossibilità di funzionamento dell’assemblea. Con l’introduzione del CCII, tra le cause di scioglimento figura anche l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale o di liquidazione controllata (art. 2484, comma 1c.c.).

Il verificarsi di una di queste cause innesca un procedimento inderogabile di liquidazione del patrimonio sociale. È fondamentale distinguere l’origine dello scioglimento: se si verifica una causa legale (come ai nn. 1-5 dell’art. 2484 c.c.), per le s.r.l. si può procedere alla messa in liquidazione e alla nomina dei liquidatori mediante una procedura semplificata che non richiede l’intervento del notaio, purché non vi siano modifiche statutarie. Gli effetti dello scioglimento in questi casi decorrono dall’iscrizione nel Registro delle imprese della dichiarazione degli amministratori che accertano la causa.

Diversa è la situazione per la domanda di accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza (Titolo IV del CCII, come il concordato preventivo o gli accordi di ristrutturazione). Questi strumenti, mirando al risanamento e alla continuità aziendale, sono soggetti a formalitàparticolarmente stringenti previste dall’art. 120-bis CCII.

Tale norma esige che la decisione degli amministratori risulti da un verbale redatto da notaio, sia depositata e iscritta nel Registro delle imprese, e che i soci ne vengano informati. Tali requisiti sono intrinsecamente legati alla necessità di definire il contenuto di proposte e piani che vincolano la società e incidono sul suo futuro rapporto con i creditori.

Il commento della Corte di Cassazione (ord. n. 30903/2025): il feticcio del notaio e la cruda realtà del dissesto

La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 30903 del 25 novembre 2025, è intervenuta per dirimere un conflitto interpretativo cruciale in materia di accesso alla liquidazione giudiziale (già fallimento) da parte dell’organo amministrativo. Il caso in esame vedeva un socio di maggioranza contestare la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, lamentando che l’amministratore unico avesse omesso le stringenti formalità previste dall’art. 120-bis CCII, inclusa la redazione di un verbale notarile e l’informazione preventiva ai soci.

La tesi del ricorrente era, in sostanza, che l’accesso alla procedura concorsuale, pur essendo di competenza esclusiva degli amministratori, dovesse essere formalizzato in modo solenne, garantendo così la tutela del socio. In difetto, l’istanza sarebbe stata abusiva e invalida.

Gli Ermellini hanno respinto con lucida fermezza questa ricostruzione, enunciando un principio di diritto che funge da vero e proprio spartiacque: “La decisione degli amministratori della società di accedere alla procedura di liquidazione giudiziale non è assoggettata alla disciplina dell’art. 120-bis c.c.i.i.”.

La Suprema Corte ha sottolineato che l’art. 120-bis CCII è inserito nel Titolo IV, dedicato agli strumenti di regolazione, procedure che per loro natura implicano la formulazione di proposte e l’assunzione di obblighi verso i creditori, richiedendo dunque un elevato grado di formalità per vincolare la società. La liquidazione giudiziale, al contrario, è disciplinata dal Titolo V e costituisce una procedura completamente diversa: non mira al risanamento, ma all’accertamento di uno stato di insolvenza irreversibile e alla liquidazione coattiva dei beni.

L’irrilevanza delle formalità solenni è logica: non c’è ragione di esigere un atto notarile per una decisione gestionale che non comporta l’illustrazione di un piano o di una proposta verso i creditori, ma solo la presa d’atto del capolinea.

Il legislatore stesso, nell’art. 40 CCII, rinvia all’art. 120-bis solo per le domande di accesso a uno strumento di regolazione della crisi, escludendo la liquidazione giudiziale. Questa interpretazione è stata rafforzata dalle modifiche normative del D.Lgs. n. 136/2024, le quali hanno esplicitamente chiarito che gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza sono procedure diverse dalla liquidazione giudiziale.

A ben vedere, se gli amministratori propongono di salvare l’azienda, devono mettere in scena un atto notarile solenne; se invece dichiarano l’ineluttabile decesso dell’impresa, basta una firma. Sembra quasi che l’ordinamento attribuisca maggiore formalità alla speranza di risanamento che alla nuda constatazione del dissesto.

La posizione del socio: l’abuso del processo come strategia difensiva fallita

Il socio ricorrente aveva altresì tentato di far valere l’abuso dello strumento processuale da parte dell’amministratore, sostenendo che quest’ultimo avrebbe dovuto perseguire percorsi alternativi di risanamento (come la composizione negoziata o il concordato preventivo) anziché optare per la liquidazione giudiziale, agendo in modo abusivo e contrario a buona fede.

Su questo punto, la Cassazione è stata tagliente. Sebbene l’abuso del processo sia configurabile quando uno strumento processuale è utilizzato per fini deviati (ad esempio, ritardare il fallimento a danno dei creditori), esso si presta a essere qualificato in termini di abuso nei confronti dei creditori stessi, che subiscono la liquidazione coattiva, non nei confronti dei soci.

Il socio di una società di capitali, infatti, è un soggetto estraneo alla procedura concorsuale. Il suo interesse alla conservazione del patrimonio sociale è un mero interesse di fatto.

Se la società è strutturalmente e manifestamente incapace di onorare i debiti con mezzi normali (lo stato di insolvenza), la domanda di liquidazione giudiziale da parte dell’amministratore non può considerarsi abusiva ai danni del socio. Anzi, l’amministratore, di fronte all’insolvenza, ha il dovere di attivarsi tempestivamente nell’interesse prioritario dei creditori.

Il socio, se ritiene che l’amministratore abbia agito illecitamente (non verificando ad esempio se sussistessero possibilità concrete di risanamento), dispone di rimedi interni al diritto societario (azioni di responsabilità, impugnazione di delibere, revoca della carica), ma non può bloccare l’apertura della liquidazione giudiziale fondandosi su un presunto abuso non correlato alla tutela dei creditori.

La pretesa del socio che le generiche manifestazioni di interesse o le dichiarazioni di intenti di terzi potessero smentire l’insolvenza è stata sonoramente respinta. La crisi era risalente e irreversibile (dimostrata dai tentativi falliti precedenti e dall’assenza di proventi della gestione caratteristica), a fronte di un passivo ingente. Se l’impresa è terminale, la disponibilità generica di investitori a ricapitalizzare, in assenza di un serio piano industriale a supporto della continuità aziendale, è di per sé insufficiente al pagamento integrale e nei termini concordati degli ingenti debiti accertati.

In ultima analisi, il tentativo di utilizzare i requisiti formali di una procedura salvifica (Titolo IV) per contestare la procedura di accertamento del dissesto (Titolo V) si rivela un mero, seppur sofisticato, grido di dolore procedurale del socio contro la perdita del valore della sua partecipazione, un interesse che la legge rende recessivo di fronte alla tutela prioritaria della massa creditoria.

Conclusione

L’ordinanza n. 30903/2025 non solo chiarisce un nodo cruciale nel rapporto tra diritto societario della crisi e diritto concorsuale, ma stigmatizza implicitamente l’uso strumentale delle formalità. Quando la società ha esaurito ogni risorsa e il dissesto è palese, l’amministratore, nel pieno adempimento del suo dovere verso i creditori, non deve cercare l’approvazione formale dei soci tramite notaio per dichiarare ciò che il bilancio grida da tempo: la fine.

La differenza tra gli strumenti di regolazione della crisi e la liquidazione giudiziale, sancita anche dal tenore letterale dell’art. 120-bis dlg02019011200014ar0120b CCII, è che i primi rappresentano un ponte verso la salvezza che richiede un progetto formalizzato e condiviso; la seconda è l’ineludibile affondamento, che necessita solo della cruda dichiarazione di chi tiene il timone. Pretendere un atto notarile per questa dichiarazione finale è come richiedere un’orchestra solenne per accompagnare il relitto in porto, quando i creditori aspettano solo che la vendita coattiva sia avviata.

Le decisioni della Corte di Cassazione, come un faro legale, illuminano i confini tra le procedure, evitando che sofisticazioni interpretative (come confondere i requisiti formali per la ristrutturazione con quelli per la dichiarazione di insolvenza) possano rallentare il doveroso processo di tutela dei creditori.

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