4° Contenuto Riservato: La prescrizione presuntiva: quando il tempo cambia le regole della prova

COMMENTO

DI MATTEO RIZZARDI | 20 NOVEMBRE 2025

La prescrizione presuntiva non estingue il credito, ma presume che il debito sia stato pagato, invertendo l’onere della prova tra creditore e debitore. Le più recenti sentenze della Cassazione chiariscono che l’istituto vale solo in assenza di contratto scritto e non può essere invocato da chi contesta il debito. Un meccanismo sottile che unisce diritto, logica e coerenza processuale.

La prescrizione presuntiva

La disciplina della prescrizione, pilastro fondamentale del diritto civile, si articola in due figure ontologicamente distinte, ma sovente confuse: la prescrizione estintiva e la prescrizione presuntiva.

Mentre la prima opera sul piano del diritto sostanziale in conseguenza del mancato esercizio del diritto per il tempo stabilito dalla legge (art. 2934c.c.), la seconda, nota anche come prescrizione impropria, si fonda su una presunzione di estinzione del debito, solitamente per avvenuto pagamento, entro termini legali abbreviati (sei mesi, un anno o tre anni).

L’istituto della prescrizione presuntiva, in particolare quella triennale prevista dall’art. 2956, n. 2, c.c. per il diritto dei professionisti al compenso dell’opera prestata e al rimborso delle spese correlative, non determina l’estinzione sic et simpliciter del diritto di credito.

Al contrario, essa agisce sul piano processuale, sostanziandosi in un “fenomeno di natura probatoria”.

Il suo effetto primario è l’inversione dell’onere della prova: il debitore è esonerato dal dover dimostrare l’avvenuto adempimento, mentre grava sul creditore la prova che la prestazione non sia stata eseguita.

La ratio storica di tale istituto risiede nel fatto che, per determinate attività, tra cui il contratto d’opera intellettuale, il pagamento avviene more solitocontestualmente o comunque senza dilazione e senza rilascio di quietanza scritta.

Questa presunzione è iuris tantum e può essere vinta dal creditore solo ricorrendo a mezzi probatori rigorosamente limitati: la confessione giudiziale del debitore (art. 2959 c.c.) o il deferimento di giuramento decisorio (art. 2960 c.c.). Il legislatore ha, in questo modo, bilanciato l’esigenza di certezza dei rapporti informali con la tutela del creditore, imponendogli un onere probatorio peculiare e ristretto.

Nonostante i recenti sviluppi normativi, inclusa l’introduzione di strumenti di tracciabilità e obblighi fiscali, la Suprema Corte ha ribadito la piena compatibilità e vitalità di questo istituto nel diritto civile, evidenziando come gli obblighi di natura fiscale siano ininfluenti sulle ragioni e sull’esigenza di sopravvivenza della prescrizione presuntiva sotto il profilo civilistico.

Il limite formale all’operatività: l’assenza di accordo scritto

Una recente pronuncia della Corte di Cassazione, Sezione II (sentenza 4 giugno 2024, n. 15566), ha offerto un importante chiarimento in merito all’ambito applicativo della prescrizione presuntiva (P.P.) in relazione al credito del professionista.

Il caso esaminato riguardava un professionista che vantava un credito significativo (oltre 244 mila euro) per la progettazione e direzione lavori di un centro polisportivo, un’attività protrattasi per un lungo arco temporale (dal 2000 al 2007) e calcolata su un valore d’opera elevato (oltre 3 milioni di euro). Il debitore ingiunto aveva eccepito il decorso della P.P. triennale. I giudici di merito, tuttavia, avevano rigettato l’eccezione, ritenendo che la natura complessa, continuativa e l’entità del compenso fossero incompatibili con il presupposto di informalità e del pagamento senza quietanza su cui si fonda la P.P.

La Suprema Corte ha ritenuto tale impostazione errata e fondata su una non corretta applicazione dell’art. 2956, n. 2, c.c. Gli Ermellini hanno ribadito che la norma non conferisce al giudice il potere di stabilire se il rapporto sia o meno soggetto alla P.P. in base alle caratteristiche concrete dello stesso, quali la complessità, la durata o l’entità del compenso. Rimettendo tale valutazione discrezionale al giudice di merito, si finirebbe per rendere incerta l’applicazione della disciplina.

Il punto nodale che esclude l’operatività della P.P. non è l’entità del credito, ma unicamente l’esistenza di una pattuizione scritta che regoli l’incarico professionale. La Cassazione ha chiarito che la P.P. opera “solo” per i rapporti che si sviluppano senza formalità e i cui pagamenti avvengono senza dilazione, né rilascio di quietanza. Di conseguenza, il giudice deve limitarsi a verificare se sussista un incarico professionale e, soprattutto, se vi sia un contratto scritto che escluda che il rapporto si sia svolto in via informale.

Nel caso in esame, i giudici di merito avevano accertato la mancanza di un accordo scritto tra le parti. La Suprema Corte ha dunque cassato la decisione, statuendo che, accertata l’assenza dell’unico elemento ostativo (il contratto scritto), l’eccezione di prescrizione presuntiva dovesse essere ritenuta operante.

L’incompatibilità dell’eccezione con la contestazione del quantum o dell’an(Ordinanza n. 27709/2025)

Un secondo orientamento, altrettanto cruciale per definire il perimetro applicativo dell’istituto, riguarda le difese del debitore: la P.P. non può trovare applicazione se il debitore assume una condotta processuale incompatibile con la presunzione di avvenuto adempimento.

Il caso, affrontato dalla Sezione Terza Civile (ordinanza n. 27709/2025), riguardava la richiesta di pagamento di compensi professionali da parte di un legale. La Corte d’Appello aveva accolto l’eccezione di P.P. sollevata dalla convenuta, basandosi sul mero decorso del termine triennale.

La Cassazione ha accolto il ricorso del professionista, denunciando la violazione degli artt. 2956 e 2959 c.c. Il Supremo Collegio ha ribadito che la P.P. si fonda sulla presunzione di adempimento integrale del credito. Tale presunzione è logicamente incompatibile con le difese del debitore che:

  1. Nega l’esistenza del credito (l’an);
  2. Contesta l’entità della somma richiesta (il quantum);
  3. Ammette di aver versato una somma inferiore a quella pretesa.

Il debito che si presume estinto deve essere lo stesso nella misura richiesta dal creditore. Se il debitore contesta la congruità delle somme o lo svolgimento delle prestazioni, egli implicitamente ammette di non aver pagato la cifra azionata. In questo scenario, l’eccezione non è proponibile poiché viene meno il presupposto fondamentale dell’istituto: l’idea che il debito, pur riconosciuto come esistente, sia stato saldato.

È fondamentale distinguere questa ammissione implicita dalla “nuda non contestazione” del debito. Il semplice silenzio serbato dal debitore sull’ane sul quantum della pretesa creditoria, infatti, è proprio la circostanza che legittima e rende validamente proposta l’eccezione di P.P., in quanto la mancata contestazione dell’inadempimento non costituisce ammissione indiretta della mancata estinzione dell’obbligazione ai sensi dell’art. 2959c.c.

La critica mossa alla Corte d’Appello è chiara: non aver verificato l’incompatibilità tra il contenuto delle eccezioni del cliente (contestazione sull’espletamento e sulla congruità delle somme) e la presunzione di pagamento.

Spunti critici e implicazioni per la prassi professionale

L’analisi congiunta di questi orientamenti delinea un quadro applicativo della prescrizione presuntiva per i crediti professionali caratterizzato da una rigida formalità nell’esclusione (il contratto scritto) e una sottile, ma decisiva, valutazione processuale nella sua ammissione (la condotta del debitore).

Da un lato, la Cassazione n. 15566/2024 si mostra inflessibile nell’applicazione del principio dell’informalità: l’istituto è applicabile a tutti i contratti d’opera intellettuale in assenza di accordo scritto, indipendentemente dalla complessità o dall’entità del compenso. Questo rafforza l’esigenza, per il professionista, di formalizzare sempre l’incarico, specialmente per prestazioni durature o economicamente rilevanti. L’errore dei giudici di merito è stato quello di estendere i limiti dell’applicabilità oltre la previsione codicistica, operando una distinzione non prevista dalla legge tra prestazioni “semplici” e “complesse”.

Dall’altro lato, l’ordinanza n. 27709/2025 pone un limite invalicabile per il debitore che intenda eccepire la P.P.: egli deve necessariamente astenersi dal contestare l’esistenza o l’ammontare del debito. Se il cliente si difende negando o ridimensionando il credito, egli vanifica la propria eccezione di P.P., poiché implicitamente smentisce la presunzione che il debito “così come azionato” sia stato saldato.

In conclusione, il professionista è chiamato a monitorare attentamente il termine triennale. Se non vi è contratto scritto, l’onere probatorio è invertito. Se, tuttavia, il cliente ha contestato attivamente la spettanza o la misura del compenso, il professionista vede cadere il baluardo difensivo della P.P. per il debitore, ripristinando in capo al cliente l’onere di provare l’avvenuto pagamento. Il duplice binario giurisprudenziale obbliga dunque a un’analisi attenta sia della fase precontrattuale (presenza o assenza di formalità scritta) sia della fase processuale (contenuto delle difese del debitore).

Il meccanismo della prescrizione presuntiva è paragonabile a una serratura speciale: non basta che sia trascorso il tempo (la chiave) per aprirla; il debitore deve anche dimostrare che la porta (il credito) non sia mai stata messa in discussione o, se formalmente contestata, che tale contestazione non abbia messo in dubbio la sua presunzione di adempimento. Se il creditore ha l’obbligo di usare mezzi probatori limitati per vincere la presunzione (la confessione o il giuramento), il debitore ha l’obbligo, per avvalersi della presunzione stessa, di mantenere un contegno processuale che non neghi i fatti che la presunzione mira a certificare.

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