COMMENTO
DI MASSIMILIANO TASINI | 11 DICEMBRE 2025
La sentenza Cass. civ. n. 11987/2025 costituisce un eccellente punto di riferimento per fissare lo stato del dibattito in materia di presunzioni conseguenti alla detenzione da parte di persone fisiche di assets in Paesi Black List.
La controversia
La Direzione Provinciale di Bologna dell’Agenzia delle Entrate notificava a D.D., a A.A. e a B.B., nella qualità di eredi del defunto C.C., un avviso di accertamento con il quale recuperava a tassazione, ai fini dell’IRPEF, gli interessi presuntivamente prodotti nell’anno 2009 dalle somme depositate dal “de cuius” presso istituti di credito aventi sede nella Repubblica di San Marino, calcolati al tasso applicabile ex art. 6 del D.L. n. 167/1990, agli investimenti di natura finanziaria trasferiti o costituiti all’estero in violazione delle norme in tema di monitoraggio fiscale.
Le contribuenti impugnavano tale avviso di accertamento dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Bologna, che accoglieva il loro ricorso, annullando l’atto impositivo.
La decisione veniva successivamente confermata dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado dell’Emilia-Romagna. Ritenevano i giudici che l’Amministrazione finanziaria fosse decaduta dall’esercizio del potere impositivo, dovendo escludersi l’applicabilità della disciplina sul raddoppio dei termini per l’accertamento introdotta dall’art. 12, commi 2-bis e 2-ter del D.L. n. 78/2009, e ciò in ragione del fatto che l’Ufficio non si era avvalso della presunzione legale sancita dal comma 2 dello stesso articolo – ovvero quella di sottrazione alla tassazione nazionale dei redditi investiti all’estero e non dichiarati al Fisco -, né aveva irrogato alcuna sanzione per l’inosservanza dell’obbligo di dichiarazione di cui all’art. 4 del D.L. n. 167/1990 (c.d. Monitoraggio fiscale).
Soggiungevano, inoltre, che il menzionato Decreto-Legge, essendo stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 1° luglio 2009, poteva essere “applicato al periodo di imposta successivo all’anno di entrata in vigore, vale a dire all’anno 2010, e quindi alla dichiarazione da presentarsi nell’anno 2011”.
Avverso tale sentenza l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione, mentre le eredi resistevano con distinti controricorsi.
Con l’unico motivo di ricorso, l’Agenzia censura l’impugnata sentenza per aver erroneamente ritenuto non operante nella presente fattispecie la disciplina sul raddoppio dei termini per l’accertamento contenuta nei commi 2-bis e 2-ter citati, sull’erroneo presupposto che la stessa risulterebbe applicabile nelle sole ipotesi in cui l’Amministrazione finanziaria si avvalga della presunzione legale di cui al comma 2 dello stesso articolo o irroghi al contribuente la sanzione pecuniaria prevista in caso di violazione dell’obbligo di monitoraggio fiscale.
La Corte, dopo aver premesso che alla concreta fattispecie non si applica la regola della “doppia conforme”, che renderebbe inammissibile il ricorso per Cassazione, ritiene fondata la prospettazione erariale.
La motivazione della sentenza
La Corte richiama preliminarmente la giurisprudenza (ritenuta “ormai consolidata”), secondo la quale la presunzione di cui all’art. 12, comma 2, del D.L. n. 78/2009, con riguardo agli investimenti e alle attività di natura finanziaria detenuti negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato, non ha natura procedimentale, bensì sostanziale, sia perché le norme in tema di presunzioni sono collocate, nel Codice civile, fra quelle sostanziali, sia perché una diversa interpretazione potrebbe pregiudicare, in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., l’effettività del diritto di difesa del contribuente rispetto alla scelta in ordine alla conservazione di un certo tipo di documentazione. Trattasi, pertanto, di presunzione non avente efficacia retroattiva.
Viceversa, continua la Corte, hanno natura procedimentale le disposizioni contenute nei commi 2-bis e 2-ter dello stesso art. 12, le quali prevedono, rispettivamente:
- il raddoppio dei termini di decadenza fissati dall’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973 per la notifica degli atti di accertamento del reddito presuntivamente evaso;
- il raddoppio dei termini (di decadenza e prescrizione) previsti dall’art. 20 del D.Lgs. n. 472/1997 per la notifica degli atti di contestazione o di irrogazione delle sanzioni comminate dall’art. 5 del D.L. n. 167/1990 in caso di violazione dell’obbligo di dichiarazione delle disponibilità finanziarie detenute all’estero.
La Corte prosegue ricordando che, per la giurisprudenza di legittimità, la disposizione di cui al comma 2-bis deve essere interpretata nel senso che il raddoppio dei termini ivi stabilito opera:
- sia nel caso in cui l’Ufficio, facendo uso della presunzione legale sancita dalla menzionata norma, accerti che la disponibilità finanziaria detenuta nei c.d. “paradisi fiscali” e non dichiarata costituisce il provento di redditi sottratti a tassazione;
- sia in quello in cui l’Amministrazione finanziaria, senza ricorrere alla presunzione in oggetto, in quanto non applicabile retroattivamente, contesti comunque la medesima fattispecie servendosi, secondo le regole probatorie ordinarie, di presunzioni semplici qualificate da gravità, precisione e concordanza ai sensi dell’art. 2729, comma 1, c.c.
Giustifica tale equiparazione la “ratio” della disciplina palesata dal comma 1 dell’art. 12 del D.L. n. 78/2009, il quale prevede che le norme in oggetto sono dirette a dare attuazione a un’intesa fra gli Stati aderenti all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) in materia di emersione di attività economiche e finanziarie detenute in Paesi a regime fiscale privilegiato, fornendo agli uffici finanziari strumenti più efficaci(come il raddoppio dei termini per l’accertamento) per contrastare, con o senza l’ausilio della presunzione legale di cui al comma 2, il fenomeno dell’allocazione nei “paradisi fiscali” di disponibilità finanziarie formate con redditi sottratti alla tassazione nazionale (in termini si veda Cass. n. 29632/2019, Cass. n. 35840/2022 e Cass. n. 5694/2024).
Così impostati i termini della questione, la Corte ritiene che se per l’accertamento dei redditi in parola il raddoppio dei termini deve ritenersi operante indipendentemente dal fatto che l’Ufficio si avvalga o meno della presunzione legale di cui all’art. 12, comma 2, del menzionato Decreto-Legge, non può che pervenirsi ad analoga conclusione anche con riferimento alla ripresa a tassazione degli interessi che per legge si presumono prodotti da quegli stessi redditi.
I precedenti
Molto importante al fine di contestualizzare la pronuncia in commento è riportare gli esiti della sentenza Cassazione 2 febbraio 2018, n. 2662.
Il caso affrontato riguarda un contribuente vittorioso nei primi due gradi di giudizio e contro il quale l’Ufficio ricorreva per Cassazione. La vicenda riguardava tre avvisi di accertamento per gli anni 2005, 2006 e 2007, ed atti di contestazione di sanzioni, con i quali erano rispettivamente recuperati a tassazione i maggiori redditi accertati negli anni di riferimento in base a detenzione di capitali in Paese a fiscalità privilegiata, in virtù della presunzione di cui all’art. 12, comma 2, del D.L. n. 78/2009, ed irrogate le relative sanzioni.
Secondo l’Autorità Finanziaria ricorrente, l’art. 12, comma 2, D.L. n. 78/2009 avrebbe natura procedimentale con conseguente applicabilità retroattiva della presunzione ivi contenuta; inoltre, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di merito, non sarebbe affatto vero che dalla eventuale illegittimità degli avvisi di accertamento conseguirebbe anche l’annullabilità delle sanzioni relative all’obbligo di monitoraggio.
Per la Corte, la pretesa natura procedimentale della norma di cui all’art. 12, comma 2, del D.L. n. 78/2009 che pone, in favore del fisco, una più favorevole presunzione legale relativa rispetto al quadro normativo previgente, oltre a porsi in contrasto con il tradizionale criterio della sedes materiae, che vede abitualmente le norme in tema di presunzioni collocate nel Codice civile e dunque di diritto sostanziale e non già nel codice di rito, porrebbe il contribuente, che sulla base del quadro normativo previgente non avrebbe, ad esempio, avuto interesse alla conservazione di un certo tipo di documentazione, in condizione di sfavore, pregiudicandone l’effettivo espletamento del diritto di difesa, in contrasto con i principi di cui agli artt. 3 e 24 Cost.
Per contro, la Corte accoglie il secondo motivo di ricorso dell’Autorità Finanziaria, nella considerazione che le sanzioni irrogate ex art. 5, comma 2, del D.L. n. 167/1990, hanno un titolo autonomo, che trova la sua ratio nell’elusione di un obbligo dichiarativo, posto da norma già in vigore (art. 4, comma 1 del D.L. n. 167/1990), volto a consentire all’Amministrazione un monitoraggio periodico delle attività finanziarie detenute all’estero. Ne consegue che la violazione di detto obbligo dichiarativo è sanzionabile a prescindere dall’accertamento di evasioni fiscali connesse alle attività finanziarie detenute all’estero e non dichiarate.
Per comprendere quanto la questione sia complessa è bene richiamare anche la recente ordinanza Cass. civ. n. 2667/2025. Essa, nello statuire con riferimento ad un accertamento relativo all’anno 2006, aderisce alla tesi “sostanziale”, quindi la previsione dell’art. 12, comma 2, ovvero:
- gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenute negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato, in violazione degli obblighi di dichiarazione degli assets esteri, ai soli fini fiscali si presumono costituite, salva la prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione;
- in tale caso, le sanzioni previste dall’art. 1 D.Lgs. n. 471/1997 sono raddoppiate;
non può essere applicata anche per le annualità (dal 2008 a ritroso) antecedenti alla sua entrata in vigore (Cass. 21 dicembre 2018, n. 33233; Cass. 30 gennaio 2019, n. 2562; Cass. 28 febbraio 2019, n. 5885; Cass. 14 novembre 2019, n. 29632 e n. 29633; Cass. 28 novembre 2019, n. 31085; Cass. 25 febbraio 2020, n. 4984; Cass. 18 settembre 2020, n. 19446; Cass. 22 marzo 2021, n. 7957; Cass. 23 giugno 2021, n. 17928; Cass. 5 marzo 2024, n. 5964; Cass. 1 luglio 2024, n. 18061).
Riflessioni conclusive
All’apparenza, sembra emergere una contraddizione.
Due diverse sentenze della Corte entrambe datate 2025 affermano la natura sostanziale della presunzione di cui all’art. 12 comma 2 del D.L. n. 78/2009, ma una si conclude a favore del fisco e l’altra del contribuente.
A ben vedere, tuttavia, esiste una differenza, una sfumatura che diviene sostanza: invero, nella pronuncia n. 2667/2025 la Corte accoglie il ricorso del contribuente in quanto “l’avviso di accertamento oggetto del presente giudizio (all. n. 3 del ricorso per cassazione) è basato esclusivamentesulla presunzione legale prevista dall’art. 12, comma 2, D.L. 78/2009”.
Se, viceversa, l’Autorità Finanziaria avesse nell’atto impositivo richiamato anche la sussistenza di presunzioni qualificate, ovvero gravi, precise e concordanti, sarebbe verosimilmente prevalsa la tesi erariale, posto che l’ordinanza della Corte n. 11987/2025 legittima non solo il ricorso alla presunzione legale ma altresì a presunzioni semplici, purché appunto gravi, precise e concordanti.
Riferimenti normativi:
- D.L. 1 luglio 2009, n. 78, conv. dalla Legge 3 agosto 2009, n. 102, art. 12;
- Cass. civ., ord. 7 maggio 2025, n. 11987.
Il contenuto di questa newsletter è strettamente riservato e destinato esclusivamente ai destinatari autorizzati.
È espressamente vietata la condivisione totale o parziale di questa comunicazione su qualsiasi piattaforma pubblica o privata, inclusi (ma non limitati a):
• Gruppi e canali Telegram
• Chat di gruppo o broadcast su WhatsApp
• Post o storie su Facebook, Instagram, X (Twitter), LinkedIn, o altri social network.
Ogni violazione di questa norma potrà comportare l’esclusione immediata dalla lista dei destinatari e, nei casi più gravi, azioni legali.