RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA
A CURA DI FABIO PACE | 19 DICEMBRE 2025
AGEVOLAZIONI
Detassazione degli investimenti
Rilevanza della disponibilità del bene – Cass., Sez. trib., Ord. 10 dicembre 2025, n. 32064
Si discute se l’investimento possa considerarsi effettuato con la consegna dei beni presso il magazzino del venditore, irrilevante la data di trasporto e messa in opera presso il compratore che deduce la somma investita.
In tema agevolazione per investimenti in impianti e apparecchiature di cui all’art. 5, comma 1, del D.L n. 78/2009, gli investimenti possono ritenersi fatti entro il 30 giugno 2010, se in tale momento il bene è entrato nella disponibilità dell’acquirente, a prescindere dal momento in cui il macchinario sia stato messo in opera.
La locuzione “investimenti fatti” si concreta nell’erogazione della spesa necessaria ad acquisire nuovi macchinari e nuove apparecchiature. Non è richiesta la messa in opera o l’entrata in funzione del bene acquistato. La voluta genericità dell’espressione “fatti” richiama solo il momento in cui l’investimento può dirsi compiuto per la ditta che chiede la riduzione dall’imponibile. Trattandosi di acquisto di macchinari, l’investimento può dirsi compiuto a fini fiscali con la consegna, cioè con la disponibilità del bene nella sfera dell’acquirente. Il ricevimento della merce e l’emissione della fattura comportano la contestuale annotazione del debito nelle scritture contabili e la deducibilità dell’importo che sarà corrisposto a saldo.
Ai fini del momento di effettuazione dell’investimento, anche per le acquisizioni di beni con contratti di leasing rileva il momento in cui il macchinario è consegnato, ossia entra nella disponibilità del locatario. Solo se il contratto di leasing prevede la clausola di prova a favore del locatario, ai fini dell’agevolazione diviene rilevante la dichiarazione di esito positivo del collaudo da parte dello stesso locatario mentre, nell’ipotesi in cui non sia prevista tale clausola e non si tratti di contratto di appalto, l’investimento si deve considerare realizzato al momento della consegna del bene (Cass., Sez. T., ord. 15 luglio 2025, n. 19516).
CATASTO
Rendita catastale
Cambio di destinazione urbanistica – Cass., Sez. trib., Ord. 11 dicembre 2025, n. 32312
Si eccepisce la validità del parziale cambio di destinazione d’uso urbanistico da D8 (commerciale) a D7, assumendo che, per ottenere il cambio, è necessario il permesso del Comune. L’Ufficio rileva che la modifica era giustificabile solo con sostanziali modifiche delle unità immobiliari, idonee a ridurne il valore
In ipotesi di cambio di destinazione urbanistica operata dal contribuente, il provvedimento di classamento e attribuzione della rendita catastale dell’immobile, a fronte di DOCFA presentata, in quanto un atto tributario riferito alle caratteristiche oggettive costruttive e tipologiche in genere del bene non può prescindere dalla verifica della regolarità urbanistica ed edilizia, non potendosi, quindi, tenere conto di un cambio di destinazione d’uso privo di un titolo edilizio-urbanistico abilitativo.
L’idoneità del bene a produrre ricchezza va ricondotta, prioritariamente, non al concreto uso che di esso venga fatto, ma alla sua destinazione funzionale e produttiva, che va accertata in riferimento alle potenzialità d’utilizzo purché non in contrasto con la disciplina urbanistica (Cass. 30 aprile 2015, n. 8773; Cass. 10 giugno 2015, n. 12025; Cass. 19 dicembre 2019, n. 34002; Cass. 3 luglio 2020, n. 13666; Cass. 14 ottobre 2020, n. 22166; Cass. 16 novembre 2020, n. 25992; Cass. 2 febbraio 2021, n. 2249; Cass. 9 novembre 2021, n. 32868; Cass. 5 ottobre 2023, n. 28114; Cass. 15 novembre 2024, n. 29542).
Ai fini della classificazione di un immobile, occorre guardare alle sue caratteristiche strutturali e non alla condizione del proprietario e al concreto uso che questi ne faccia (Cass. 14 ottobre 2020, n. 22166).
Posto che il cambio di destinazione d’uso urbanistico è soggetto a verifiche di tipo urbanistico-edilizio da parte degli enti preposti e a provvedimenti autorizzativi non intervenuti, non è possibile un classamento fondato su una diversa destinazione d’uso operata da contribuente senza l’osservanza delle autorizzazioni, non potendosi ammettere un’iscrizione in catasto che prescinda dalla regolarità urbanistica del bene; l’accatastamento non è una semplice registrazione fiscale, ma presuppone la regolarità urbanistica ed edilizia.
IMPOSTE INDIRETTE
Registro
Apertura di credito con garanzia ipotecaria – Cass., Sez. trib., Ord. 11 dicembre 2025, n. 32347
L’Agenzia ha revocato l’agevolazione fruita in relazione a un contratto di apertura di credito con garanzia ipotecaria, regolato su c/c, assumendo che non ne sussistevano i presupposti, in quanto la banca aveva la facoltà di recedere ad nutum dal contratto in base a clausole che determinavano il contenuto negoziale.
In tema di imposta di registro, l’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 deve essere interpretato nel senso che, laddove il collegamento negoziale integri – piuttosto che la rilevanza ab estrinseco di disposizioni negoziali riconducibili, in quanto tali, ad autonomi atti presentati per la registrazione e, quindi, a diverse tipizzazioni di tariffa – il complessivo assetto dell’unico atto (del gestum, appunto) sottoposto a registrazione, i conseguenti effetti giuridici dell’atto non possono che essere ricercati e individuati nel concorso delle disposizioni negoziali che lo connotano in quanto (tutte) collegate nella loro definizione.
Ai fini dell’agevolazione ex art. 15 del D.P.R. n. 601/1973, rileva l’assunzione di un vincolo negoziale per un arco di tempo minimo stabilito dalla legge, indipendentemente dalle vicende successive del rapporto, così che la previsione, nel contratto di finanziamento, di una clausola in base alla quale la banca ha la facoltà di recedere unilateralmente e senza preavviso anche prima della scadenza dei 18 mesi, priva dall’origine il credito della sua natura temporale (medio-lunga) richiesta dalla norma di agevolazione, degradando la durata del rapporto a elemento variabile in funzione dell’interesse dell’azienda di credito (Cass. 18 aprile 2018, n. 9506; Cass. 28 marzo 2018, n. 7649; Cass. 24 maggio 2013, n. 12928; Cass. 9 dicembre 2008, n. 28879).
La ratio agevolativa non è intaccata da una clausola risolutiva o di recesso a favore della banca erogante – collegata alla sussistenza di gravi inadempimenti e, comunque, di una giusta causa impeditiva del normale svolgimento del rapporto – clausola che non determina la degradazione della durata del rapporto a elemento variabile in funzione dell’interesse della banca, posta a fondamento della decadenza dall’agevolazione in fattispecie di recesso ad nutum della banca stessa (Cass. n. 9506 del 2018 cit.).
IRPEF
Reddito d’impresa
Periodo tra inizio e fine della liquidazione giudiziale – Cass., Sez. trib., Sent. 9 dicembre 2025, n. 31973
L’Agenzia deduce che il residuo attivo rilevante per determinare il reddito d’impresa è il valore dei cespiti pari al costo fiscalmente riconosciuto delle immobilizzazioni e non va determinato al termine della procedura concorsuale di liquidazione coatta amministrativa, facendolo coincidere con il patrimonio netto dell’impresa.
In tema di determinazione del reddito d’impresa relativamente al periodo compreso tra l’inizio e la chiusura della procedura di fallimento (ora liquidazione giudiziale) ovvero di liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’art. 183, comma 2, del D.P.R. n. 917/1986, nel caso di chiusura della procedura a seguito di concordato, con rientro in bonis del debitore, il residuo attivo, sulla base del quale calcolare la differenza con il patrimonio netto dell’impresa o della società all’inizio del procedimento, deve essere determinato tenendo conto delle passività non ancora soddisfatte, ma da soddisfare in esecuzione del programma concordatario, non potendosi ritenere che tale soddisfacimento derivi già di per sé dall’omologazione del concordato.
La chiusura della liquidazione coatta amministrativa (o del fallimento, ora liquidazione giudiziale a seguito dell’entrata in vigore del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza di cui al D.Lgs. n. 14/2019) non determina l’immediato soddisfacimento dei creditori e non è equiparabile alla chiusura prevista dagli artt. 213 e 118, primo comma, n. 1) e n. 2), L.Fall., ma comporta, ex art. 135 L.Fall., un semplice effetto modificativo-estintivo del rapporto obbligatorio, in virtù del quale il debitore è obbligato a pagare i crediti nelle percentuali previste, anche ai creditori non ammessi nello stato passivo (Cass. 10 aprile 1995, n. 4139).
Da ciò consegue che, correttamente, il valore dell’unico cespite del residuo attivo riferibile al consorzio tornato in bonis, e cioè l’azienda, è stato calcolato in base al suo valore fiscale, dato dal saldo tra le attività e le passività, e che altrettanto correttamente su tale base è stato calcolato il valore differenziale previsto dall’art. 183, comma 2, del TUIR, per la determinazione del reddito nel corso del maxi-periodo fallimentare.
PROCESSO TRIBUTARIO
Appello
Proposizione in appello di motivi aggiunti – Cass., Sez. trib., Ord. 11 dicembre 2025, n. 32385
L’Agenzia assume la rituale produzione di documenti afferenti all’avviso di ricevimento della raccomandata postale inviata al contribuente e alla raccomandata informativa inviatagli.
In tema di processo tributario, visto il combinato disposto di cui agli artt. 24, 58, comma 2, e 61 del D.Lgs. n. 546/1992, anche nella disciplina previgente alla sostituzione dell’art. 58 del decreto cit. (ad opera dell’art. 1, comma 1, lett. bb, del D.Lgs. n. 220/2023), doveva ritenersi consentita la proposizione in appello di motivi aggiunti di impugnazione dell’atto tributario in contestazione a fronte della produzione di nuovi documenti.
La deduzione dell’omessa notifica dell’atto impugnato non può fare ritenere acquisito al thema decidendum l’esame di qualsiasi vizio di invalidità del procedimento notificatorio, non ponendosi una relazione di continenza tra l’inesistenza e i vizi di nullità di tale procedimento (Cass. 26 agosto 2024, n. 23070; Cass. 2 marzo 2017, n. 5369; Cass. 5 aprile 2013, n. 8398).
Il giudice deve attenersi all’esame dei vizi di invalidità dedotti in ricorso, il cui ambito può essere modificato solo con la presentazione di motivi aggiunti – proposizione ammissibile, ex art. 24 cit., solo in caso di deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della Corte (Cass. 13 aprile 2017, n. 9637; Cass. 2 luglio 2014, n. 15051; Cass. 15 ottobre 2013, n. 23326; Cass. 22 settembre 2011, n. 19337) – e la cui formulazione soggiace alla preclusione stabilita dall’art. 24, comma 2, cit. (Cass. 21 gennaio 2021, n. 1177; Cass. 24 luglio 2018, n. 19616; Cass. 24 ottobre 2014, n. 22662; Cass. 2 luglio 2014, n. 15051; Cass. 20 ottobre 2011, n. 21759; Cass. 24 giugno 2011, n. 13934; Cass. 18 giugno 2003, n. 9754).
Alla luce del principio di specialità, in tema di nuove prove in appello, deve darsi esclusiva applicazione all’art. 58, comma 2, cit., che ha consentito la produzione di nuovi documenti in appello (Cass. 30 giugno 2021, n. 18391; Cass. 28 giugno 2018, n. 17164; Cass. 11 aprile 2018, n. 8927; Cass. 19 dicembre 2017, n. 30537; Cass. 22 novembre 2017, n. 27774; Cass. 6 novembre 2015, n. 22776; 16 settembre 2011, n. 18907).
Questioni non rilevabili d’ufficio e assorbite – Cass., Sez. trib., Ord. 9 dicembre 2025, n. 32051
La Corte ha ritenuto non esaminabili i motivi di ricorso ritenuti assorbiti dal giudice di primo grado, in quanto non riproposti formalmente dall’appellato nell’atto di costituzione, in ogni caso, depositato tardivamente.
Nel processo tributario, ai sensi dell’art. 56 del D.Lgs. n. 546/1992, l’appellato, che sia risultato totalmente vincitore in primo grado è tenuto a riproporre le questioni processuali e di merito – che non siano rilevabili d’ufficio – rimaste assorbite dalla pronuncia di prime cure non solo specificamente, ma anche tempestivamente, nei termini di cui all’art. 23 del D.Lgs. n. 546/1992.
La volontà dell’appellato, che sia risultato totalmente vincitore in prime cure, di riproporre le questioni assorbite, pur non occorrendo a tale fine alcuna impugnazione incidentale, deve essere espressa non solo in modo specifico, come richiede l’art. 56 del D.Lgs. n. 546/1992, ma anche tempestivamente, ossia, a pena di decadenza, nell’atto di controdeduzioni da depositare nel termine previsto per la costituzione in giudizio, sicché tale volontà di riproposizione non può essere manifestata in un atto successivo (Cass. 19 ottobre 2012, n. 17950; Cass. 18 dicembre 2014, n. 26830; Cass. 22 giugno 2016, n. 12937; Cass. 30 settembre 2020, n. 20815; Cass. 5 settembre 2022, n. 26008). La riproposizione non può essere affidata a formule di mero stile o di contenuto generico, ad esempio, mediante il richiamo al complessivo contenuto degli atti del primo grado (Cass. 19 settembre 2024, n. 25239; Cass., sez. 5, ord. 5 luglio 2025, n. 18363).
La violazione del termine ex art. 23 del D.Lgs. n. 546/1992 per la costituzione in giudizio del resistente comporta solo la decadenza dalla facoltà di proporre eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio e di fare istanza per la chiamata di terzi, sicché permane il diritto dello stesso resistente di negare i fatti costitutivi dell’avversa pretesa, di contestare l’applicabilità delle norme di diritto invocate e di produrre documenti ai sensi degli artt. 24 e 32 del detto decreto (Cass. ord. 5 febbraio 2019, n. 2585).
Impugnazioni
Riproposizione delle ragioni del ricorso originario – Cass., Sez. trib., Ord. 12 dicembre 2025, n. 32389
L’Agenzia contesta la dichiarazione di inammissibilità del proprio gravame, basata sulla genericità del primo motivo e sull’assenza di deduzioni con riferimento all’atto di compravendita ritenuto una donazione simulata.
In tema di contenzioso tributario, la riproposizione a supporto dell’appello delle ragioni poste a fondamento dell’originaria impugnazione del provvedimento impositivo (per il contribuente) ovvero della legittimità dell’accertamento (per l’A.F.), in contrapposizione alle argomentazioni adottate dal giudice di primo grado, assolve l’onere di impugnazione specifica imposto dall’art. 53 del D.Lgs. n. 546/1992 quando il dissenso investa la decisione nella sua interezza e, comunque, ove dall’atto di gravame, interpretato nel suo complesso, le ragioni di censura siano ricavabili, seppure per implicito, in termini inequivoci.
Tale principio, più volte applicato quando l’A.F. si limiti a ribadire e riproporre in appello le stesse ragioni e argomentazioni a sostegno della legittimità del proprio operato, in quanto considerate dalla stessa idonee a sostenere la legittimità dell’avviso di accertamento annullato, vale, in pari misura, nel caso in cui sia la parte privata a limitarsi a ribadire in appello le ragioni di impugnazione del provvedimento impositivo, contrapponendole alle argomentazioni con le quali il giudice di primo grado ha ritenuto di rigettare l’atto introduttivo (Cass. 22 gennaio 2016, n. 1200; Cass. 3 agosto 2016, n. 16163; Cass. 22 marzo 2017, n. 7639; Cass. 20 aprile 2018, n. 9937; Cass. 11 maggio 2018, n. 11061).
È necessario (Sez. U., 16 novembre 2017, n. 27199) che l’impugnazione contenga una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, sicché alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata siano contrapposte quelle dell’appellante in vista della critica, e confutazione, delle ragioni del primo giudice. Ciò non significa che la mera riproposizione delle originarie argomentazioni non assolva a tale requisito: il dissenso può investire la decisione nella sua interezza, sostanziandosi nelle argomentazioni che suffragavano la domanda o la pretesa rimasta disattesa.
RISCOSSIONE
Prescrizione e decadenza
Prescrizione quinquennale per il contributo irriguo – Cass., Sez. trib., Sent. 11 dicembre 2025, n. 32357
Il contributo consortile correlato all’utenza irrigua e all’erogazione dell’acqua presuppone una richiesta del consorziato ed è dovuto solo in relazione alle domande presentate; la sua quota variabile rende necessaria per ogni singolo periodo contributivo una nuova e autonoma valutazione dei presupposti impositivi.
In tema di contributi consortili di bonifica, il contributo irriguo, tanto per la sua quota fissa, che per quella variabile, ha natura di prestazione periodica nell’ambito di una causa debendi di tipo continuativo, in quanto il consorziato è tenuto al versamento dello stesso in relazione al prolungarsi, sul piano temporale, della prestazione resa dall’ente impositore e del conseguente beneficio fondiario, senza che sia necessario, per ogni singolo periodo contributivo, un riesame dell’esistenza dei presupposti impositivi. Pertanto, il contributo irriguo, al pari di ogni altro contributo di bonifica, quale obbligazione periodica e di durata, va considerato sottoposto alla prescrizione quinquennale di cui all’art. 2948, n. 4), c.c.
Con riferimento ai contributi irrigui – venendo in considerazione prestazioni di natura tributaria (Cass. 27 luglio 2023, n. 22730; Cass. 24 dicembre 2020, n. 29538; Cass. 30 dicembre 2016, n. 27471; Cass. 20 novembre 2015, n. 23815) – è possibile distinguere una quota fissa e una quota variabile: la prima è dovuta indipendentemente dall’effettivo utilizzo del servizio ed è costituita dai costi per la potenzialità di quest’ultimo, ai fini della tenuta in efficienza e messa in funzione degli impianti; la seconda, dovuta in relazione alla quantità di acqua concretamente utilizzata, è costituita dalle spese sostenute per distribuire la risorsa irrigua e riguarda l’attività di movimento e funzionamento degli impianti direttamente legata all’erogazione del servizio (Cass. 18 febbraio 2025, n. 4179; Cass. 17 agosto 2023, n. 24733).
Le peculiarità applicative del contributo irriguo, per la sua parte cd. variabile, non sono, però, tali da escludere la connotazione periodica dell’obbligazione tributaria e, pertanto, va confermato il prevalente indirizzo interpretativo della Corte in punto di termine di prescrizione (quinquennale) del tributo.
Ruolo
Insinuazione di crediti tributari al passivo fallimentare – Cass., Sez. I, Ord. 12 dicembre 2025, n. 32399
Si contesta che l’estratto di ruolo basti per l’insinuazione al passivo, prospettando dubbio di costituzionalità.
In tema di accertamento del passivo fallimentare, anche dopo l’introduzione dell’art. 12, comma 4-bis, del D.P.R. n. 602/1973 sulla “Non impugnabilità dell’estratto di ruolo e limiti all’impugnabilità del ruolo”, i crediti tributari possono essere insinuati al passivo fallimentare dall’agente della riscossione in base all’estratto di ruolo, ex art. 87 del D.P.R. n. 602/1973, fermo restando che, in caso di contestazione del curatore e di ammissione con riserva, ex art. 88 del decreto cit., è onere della parte interessata attivarsi secondo le regole vigenti per l’impugnazione della cartella (o dell’avviso di accertamento o di addebito ex artt. 29 e 30 del D.L. n. 78/2010), in modo da chiedere al giudice delegato lo scioglimento della riserva, una volta che sia inutilmente decorso il termine prescritto per proporre la controversia davanti al giudice tributario o quando il giudizio sia stato definito con decisione irrevocabile o risulti altrimenti estinto.
La richiesta di ammissione al passivo concorsuale può avvenire semplicemente in base al ruolo e non occorre che l’avviso di accertamento o quello di addebito ex artt. 29 e 30 del D.L. n. 78/2010, siano previamente notificati, bastando la produzione dell’estratto di ruolo (Cass., Sez. U., sent. 11 novembre 2021, n. 33408).
Se quindi è vero che il ruolo integra un atto impositivo espressamente previsto e regolato dalla legge, contenente la pretesa economica dell’ente impositore, mentre l’estratto di ruolo è un documento formato dall’agente della riscossione, contenente gli elementi del ruolo, ciò non significa che l’estratto di ruolo non esista nel mondo giuridico, in quanto esso rappresenta la fedele riproduzione della parte del ruolo relativa alle pretese creditorie azionate (o azionabili) verso il debitore con la cartella esattoriale ed entro questi limiti costituisce prova idonea dell’entità e della natura del credito portato dalla cartella, a prescindere dalla notifica di questa (Cass., Sez. U, sent. 2 ottobre 2015, n. 19704).
Limiti alla sospensione della riscossione – Cass., Sez. trib., Ord. 12 dicembre 2025, n. 32442
Equitalia lamenta l’assenza di una delle ipotesi normativamente previste per sospendere la riscossione. Le cause di sospensione sono tassative e riferite a ipotesi di inesigibilità ab origine delle somme iscritte a ruolo.
In tema di riscossione mediante ruolo, le ipotesi di sospensione di cui all’art. 1, comma 538, lett. f), della legge n. 228/2012, non possono estendersi a casi di vizi dell’attività riscossiva attribuibili all’agente della riscossione, essendo rilevanti solo i vizi relativi alla pretesa originaria dell’ente creditore e il relativo accertamento è demandato al giudice del merito.
Se il contribuente presenta domanda di sospensione ex art. 1, comma 538, della legge n. 228/2012, senza ottenere risposta entro il termine, il ruolo è annullato di diritto solo se i motivi a base dell’istanza costituiscono cause potenzialmente estintive della pretesa (Cass., Sez. 5, sent. 5 novembre 2019, n. 28354).
Il contribuente può presentare istanza di sospensione per ottenere l’annullamento d’ufficio della pretesa creditoria, se azionata in difetto di un valido titolo esecutivo, con l’obiettivo di salvaguardare il principio di economicità dell’azione impositiva e rimediare ai difetti di comunicazione tra l’ente creditore e l’agente della riscossione; sono idonee a tale scopo solo le ipotesi di sospensione tipizzate all’art. 1, comma 538, lett. f), cit., in quanto riferibili all’ente impositore o al suo credito, non già ad attività dell’agente della riscossione, al quale resta comunque demandata una delibazione sommaria delle istanze per rigettare quelle apertamente dilatorie (Cass., Sez. 5, ord. 23 aprile 2024, n. 10939; Cass., Sez. 5, ord. 2 dicembre 2024, n. 30841).
Responsabilità e obblighi dei soci di società estinta – Cass., Sez. trib., Ord. 12 dicembre 2025, n. 32475
Il socio unico di una società estinta evidenzia di non avere ricevuto beni societari né per assegnazione né in base al bilancio finale di liquidazione, non essendo, così, responsabile per i debiti dell’ente. Inoltre, l’Ufficio non aveva né allegato né provato la percezione di somme nei due anni precedenti o durante la liquidazione.
In tema di responsabilità dei soci per il debito tributario della società estinta, ex art. 36 del D.P.R. n. 602/1973, la prova della riscossione di somme può trarsi dalla presunzione di distribuzione degli utili extracontabili in società a ristretta base; inoltre, stante la mancanza di una deliberazione ufficiale di approvazione del bilancio in relazione agli utili occulti, deve ritenersi che la loro distribuzione sia avvenuta nello stesso periodo d’imposta in cui gli stessi sono stati conseguiti.
Nella fattispecie di responsabilità dei soci limitatamente responsabili per il debito tributario della società estintasi per cancellazione dal Registro imprese, il presupposto dell’avvenuta riscossione di somme in base al bilancio finale di liquidazione integra, oltre alla misura massima dell’esposizione debitoria personale dei soci, una condizione dell’azione attinente all’interesse ad agire e non alla legittimazione ad causam dei soci stessi; questo presupposto, se contestato, deve essere provato dal Fisco che faccia valere, con la notificazione ai soci di apposito avviso di accertamento, la responsabilità in questione, fermo restando che l’interesse ad agire dell’A.F. non è escluso per il solo fatto della mancata riscossione di somme in base al bilancio finale di liquidazione, potendo tale interesse radicarsi in altre evenienze (Cass., Sez. U, 12 febbraio 2025, n. 3625).
La questione della limitazione della responsabilità dei soci alle sole somme riscosse in sede di liquidazione, non è dirimente, ove si verta in tema di ricavi occulti e, dunque, non rilevabili documentalmente, ma che, per la ristretta base societaria, si presumono distribuiti a favore dei soci; l’assenza di evidenza contabile di utili non rende necessarie particolari rilevazioni ai fini della legittimazione dei soci né dei requisiti ex art. 36 cit. (Cass. 26 luglio 2023, n. 22692; 17 dicembre 2020, n. 28955; 4 dicembre 2020, n. 27791).
TRIBUTI LOCALI
ICI
Esenzione immobili a uso promiscuo – Cass., Sez. trib., Sent. 11 dicembre 2025, n. 32370
La questione riguarda un’unità immobiliare di una congregazione religiosa, destinata a uso promiscuo, parte ad abitazione, parte ad attività ricettiva. Va verificato se l’attività ricettivo-alberghiera sia stata svolta quale attività d’impresa, con esenzione ICI in termini di un effettivo aiuto di Stato da recuperare.
Con riferimento ai periodi d’imposta dal 2006 al 2011, l’esenzione ICI prevista dall’art. 7, comma 1, lett. i), del D.Lgs. n. 504/1992, ha integrato un aiuto di Stato, laddove sia stata usufruita nello svolgimento di un’attività economica riconducibile alla nozione eurounitaria di impresa, così come ritenuto dalla decisione della Commissione n. 2013/284/UE, del 19 dicembre 2012, e atteso che la valutazione circa la compatibilità con il mercato comune di misure di aiuto o di un regime di aiuti rientra nella competenza esclusiva della Commissione, che opera sotto il controllo del giudice comunitario. Tale aiuto va recuperato in conformità alle disposizioni poste dalla decisione della Commissione n. 2023/2103, del 3 marzo 2023, ed è nella fase del recupero che va previamente verificata la situazione individuale di ciascuna impresa interessata con riferimento all’esenzione usufruita nello svolgimento di un’attività con modalità commerciali. Nel contesto dell’azione di recupero rientra, quindi, l’applicazione della regola de minimis che, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, ha lo scopo di consentire, per gli aiuti di Stato di importo limitato, una deroga alla regola secondo cui ogni aiuto, anteriormente alla sua attuazione, deve essere notificato alla Commissione, e mira a semplificare gli oneri amministrativi delle imprese, della Commissione e degli Stati membri. L’art. 16-bis del D.L. n. 131/2024, al comma 1 ha istituito uno speciale regime dichiarativo, che risulta funzionale al recupero di quanto indebitamente non versato per l’esenzione fiscale costituente illegale aiuto di Stato e, al comma 2, ha espressamente fatto salva l’applicazione della regola de minimis, il cui contenuto discende da regolamenti comunitari, così che l’indicazione di un’imposta a debito di importo superiore a 50.000 euro annui, contenuta nel comma 1, opera solo quale presupposto della dichiarazione ivi prevista.
Imposta comunale sulla pubblicità
Delibere di aumenti della tariffa – Cass., Sez. trib., Ord. 10 dicembre 2025, n. 32154
Si contesta che i Comuni potessero continuare a deliberare aumenti della tariffa relativa all’imposta sulla pubblicità anche dopo il 1° gennaio 2013, a seguito della sentenza della Corte cost. 30 gennaio 2018, n. 15.
L’art. 1, comma 739, della legge n. 208/2015 – secondo cui l’art. 23 comma 7, del D.L. n. 83/2012, dove abroga l’art. 11, comma 10, della legge n. 449/1997, relativo alla facoltà dei Comuni di aumentare le tariffe base dell’imposta comunale sulla pubblicità, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1 della legge n. 212/2000, si interpreta nel senso che l’abrogazione non ha effetto per i Comuni che si erano già avvalsi di tale facoltà prima della data della sua entrata in vigore (prima del 26 giugno 2012) – va inteso, alla luce dell’interpretazione offerta dalla sentenza della Corte cost. 30 gennaio 2018, n. 15, nel senso che anche gli aumenti tariffari deliberati dai Comuni prima del 26 giugno 2012 possono avere efficacia solo fino al 31 dicembre 2012, ripristinandosi dal 1° gennaio 2013 il regime delle tariffe base ex art. 12 del D.Lgs. n. 507/1993; consegue la nullità degli avvisi di accertamento per imposta comunale sulla pubblicità che abbiano applicato le tariffe maggiorate con decorrenza dal 2013, ancorché deliberate prima del 26 giugno 2012.
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