COMMENTO
DI MASSIMILIANO TASINI | 9 DICEMBRE 2025
La sentenza C‑331/23 (Dranken Van Eetvelde) offre una ricostruzione aggiornata dei limiti che il diritto dell’Unione impone ai meccanismi di responsabilità solidale del terzo per l’IVA non versata. La Corte di giustizia, pur legittimando una disciplina nazionale improntata a un modello quasi-oggettivo di responsabilità, lascia uno spiraglio nella misura in cui riafferma i principi di proporzionalità, neutralità e tutela giurisdizionale effettiva. Il presente contributo analizza la decisione , la confronta con le conclusioni dell’Avvocato generale Kokott e trae indicazioni sistematiche utili per interpretare la disciplina italiana dell’art. 60‑bis del D.P.R. n. 633/1972, che risulta, alla luce del criterio unionale, un modello più equilibrato e rispettoso delle garanzie sostanziali richieste dall’ordinamento europeo.
La vicenda
La sentenza C‑331/23 della Corte di giustizia dell’Unione europea si colloca nel solco della giurisprudenza volta a definire i confini del legittimo intervento degli Stati membri nel contrasto alle frodi IVA.
La vicenda origina dal ricorso proposto alla Corte dalla società Dranken, operante nel settore del commercio all’ingrosso ed al dettaglio di bevande, cui viene contestata l’emissione di fatture soggettivamente false, poichè esse indicano, quali cessionari, soggetti privati – in luogo di quelli effettivi, i quali ultimi sono invece soggetti passivi IVA – che gestivano strutture alberghiere, bar e ristoranti.
Si immagina così che questi ultimi, operando con consumatori finali, non avessero difficoltà ad occultare il corrispettivo di vendita per poi reinvestire “al nero” in fase di acquisto di nuovi beni s servizi.
Si sottolinea che non è controverso che Dranken abbia versato l’IVA addebitata in fase vendita; tuttavia, dall’aver partecipato consapevolmente ad una frode per favorire i propri clienti, essa viene responsabilizzata in via solidale per l’omesso versamento IVA degli stessi clienti, i quali verosimilmente hanno ceduto le bevande acquisite senza contabilizzare i ricavi. Va da sè che se essi si fossero comportati come soggetti passivi – quali essi in effetti sono – avrebbero detratto l’IVA in fase acquisto e l’avrebbero addebitata in fase vendita, e l’IVA dovuta sarebbe stata solo la differenza tra le due, mentre nel caso in evidenza la detrazione, per così dire, si perde.
Così sommariamente riassunti i termini della questione, occorre dire che la normativa belga, nel settore della commercializzazione di bevande alcoliche, prevede un sistema di responsabilità solidale del terzo particolarmente severo: esso attribuisce al soggetto diverso dal debitore legale l’obbligo di corrispondere l’IVA non versata, senza richiedere alcuna indagine concreta sull’elemento soggettivo e con un margine estremamente ridotto per la prova liberatoria.
Tale scelta legislativa era sospettata di entrare in tensione con i principi cardine del sistema armonizzato.
La Corte è stata così chiamata a verificare la compatibilità della disciplina interna belga con l’art. 205 della Direttiva n. 2006/112/CE. È noto che tale disposizione consente agli Stati membri di prevedere che un soggetto diverso dal debitore-legale risponda in solido dell’imposta; ma la stessa norma non attribuisce agli ordinamenti nazionali un potere illimitato.
L’Avvocato generale Kokott, nelle sue approfondite conclusioni, aveva sostenuto che il meccanismo belga eccede il perimetro dell’art. 205, trasformando il terzo in un debitore sostanziale dell’imposta, senza alcuna correlazione con la sua effettiva partecipazione alle operazioni fraudolente.
La sentenza
La Corte non aderisce all’impostazione dell’Avvocato Generale, secondo il quale la disciplina belga sarebbe incompatibile con il diritto unionale. Essa pone solo una condizione, ovvero il terzo deve poter dimostrare, almeno in via teorica, di aver adottato ogni cautela ragionevole per evitare di essere coinvolto in un sistema fraudolento. Tale condizione, secondo la Corte, pur astratta, impedisce che la responsabilità si trasformi in un obbligo automatico ed inevitabile, che costituirebbe una violazione del principio di proporzionalità.
È significativo che la Corte non richieda un accertamento pienamente individualizzato della colpa o del dolo del terzo, accettando così una forma di responsabilità di natura prossima all’oggettiva. Tuttavia, essa afferma con chiarezza che una responsabilità totalmente sganciata da ogni profilo di diligenza non è compatibile con il diritto unionale.
Accanto al principio di proporzionalità, viene in rilievo il principio di neutralità dell’IVA. La Corte ribadisce che il legislatore nazionale può imporre ad un soggetto diverso dal debitore originario il pagamento dell’imposta, anche senza considerare il diritto di detrazione spettante a quest’ultimo. La distorsione potenziale che potrebbe derivare da una simile impostazione non costituisce, secondo la Corte, un ostacolo decisivo, purché la disciplina sia coerente e sistematicamente finalizzata al contrasto delle frodi.
È un passaggio che conferma l’orientamento già emerso in altre pronunce: la neutralità, pur costituendo un valore essenziale, non è assoluta e può subire compressioni quando lo richieda la tutela del gettito e l’integrità del sistema.
La terza questione affrontata concerne il divieto di bis in idem sancito dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Poiché le sanzionicoinvolte si riferivano a periodi d’imposta differenti, la Corte esclude la violazione del principio, richiamandosi alla propria giurisprudenza secondo cui è necessario che ricorrano congiuntamente identità di soggetto, identità di fatti e identità del bene giuridico protetto. Il passaggio è significativo in quanto conferma che i sistemi sanzionatori nazionali possono prevedere regimi particolarmente severi, eppur legittimi.
Responsabilità e natura del debito
Particolarmente rilevante ai fini della ricostruzione sistematica è la distinzione operata tra debito di imposta e debito presunto. La dottrina al riguardo sottolinea come l’art. 205 possa estendere la responsabilità soltanto in presenza di un debito certo e determinabile.
La disciplina belga, invece, calcolava il debito del terzo sulla base delle operazioni del cessionario occulto, senza verificare se questi avesse effettivamente ceduto i beni, a chi e a quale prezzo. Tale vaghezza, pur segnalata dall’Avvocato generale, non ha determinato una declaratoria di incompatibilità; ciò nondimeno, la Corte ha affermato che il legislatore nazionale deve sempre evitare che il coobbligato sia chiamato a rispondere sulla base di mere presunzioni non ancorate a un quadro fattuale ricostruibile.
Il rapporto con l’art. 60‑bis D.P.R. n. 633/1972
Il confronto con la disciplina italiana è istruttivo.
L’art. 60‑bis prevede una responsabilità solidale del cessionario, ma la condiziona a presupposti selettivi: prezzo inferiore al valore normale e consapevolezza o conoscibilità dell’evasione IVA da parte del cedente.
A differenza del modello belga, il legislatore italiano non richiede una prova liberatoria meramente astratta: la responsabilità nasce solo in presenza di segnali oggettivi di anomala convenienza, che un operatore diligente è in grado di cogliere. La disposizione italiana appare dunque più avanzata sotto il profilo delle garanzie e più aderente all’impianto unionale delineato dalla Corte.
Sotto il profilo applicativo, l’art. 60‑bis rappresenta un meccanismo calibrato: consente di colpire le frodi carosello e le operazioni in cui il cessionario trae vantaggio da prezzi artificiosamente compressi grazie al mancato versamento dell’imposta. Al contempo, evita di trasformare il cessionario in un coobbligato generale dell’IVA.
Conclusioni
La sentenza C‑331/23 conferma che l’impostazione adottata dal legislatore italiano è conforme al diritto dell’Unione, poiché mantiene un rapporto razionale tra comportamento dell’operatore e insorgenza della responsabilità.
Anzi, può dirsi a ragione che la normativa interna è obiettivamente garantista, mentre la Corte avrebbe con ogni probabilità legittimato anche una previsione molto più vicina a quella adottata dal legislatore belga.
La decisione della Corte, sembra ampliare in modo quasi indeterminato il diritto degli Stati membri di adottare politiche di contrasto alle frodi, sia sotto il profilo della individuazione dei presupposti che della misura della responsabilità, che nel caso della sentenza in commento assume proporzioni “mostruose”, essendo ammesso un debito pari a circa 5 volte l’imposta (comunque versata) dalla società belga.
Difficile dunque sostenere che sia stato garantito il principio della proporzionalità, pur immanente.
Insomma, la disciplina italiana, alla luce di tale quadro, può ritenersi non solo compatibile con il diritto UE, ma persino più cauta e rispettosa delle garanzie rispetto ai modelli normativi più aggressivi, come quello belga. Il risultato è un sistema che coniuga efficacemente l’esigenza di contrastare le frodi con la tutela dell’affidamento dell’operatore economico.
Riferimenti normativi:
- D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 60-bis;
- Direttiva 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE, art. 205;
- Corte UE 12 dicembre 2024, causa C-331/23 .
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