COMMENTO
DI STUDIO TRIBUTARIO GAVIOLI & ASSOCIATI | 3 LUGLIO 2025
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16042, del 16 giugno 2025, ha fornito alcuni interessanti chiarimenti in materia di accertamento fiscale in concomitanza di reati tributari che di seguito analizziamo. Nel decidere la controversia la Corte ha dichiarato che il presupposto che nei confronti del contribuente siano state archiviate le accuse di reati tributari non impedisce che lo stesso venga definito diversamente da parte del giudice tributario.
Il contenzioso
L’Agenzia delle Entrate, a seguito di processo verbale di constatazione redatto nei confronti di due società aventi la medesima sede legale e riconducibili alla stessa famiglia, notificava a quest’ultima un avviso di accertamento con il quale, con riferimento all’anno di imposta 2007, recuperava, ai fini IRES, un maggior reddito imponibile di oltre 358mila euro più interessi e sanzioni.
L’atto impositivo conseguiva ad altro avviso di accertamento con il quale l’Ufficio, per l’anno di imposta 2006, aveva accertato un reddito di oltre 390mila euro a fronte di una perdita dichiarata di poco superiore a 328mila euro, portata in compensazione nell’anno 2007 e, di conseguenza, ritenuta non spettante.
La società contribuente proponeva ricorso avverso detto avviso di accertamento innanzi alla CTP la quale lo accoglieva con sentenza confermata in appello dalla CTR.
Avverso tale sentenza l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per Cassazione con due motivazioni:
- con il primo motivo l’Agenzia delle Entrate evidenzia che, con l’atto di appello, aveva eccepito l’erroneità della sentenza di primo grado, laddove aveva ritenuto che fossero maturati i termini di decadenza per l’accertamento, la carenza di motivazione della medesima sentenza, l’erronea valutazione dei fatti di causa; che, tuttavia, a fronte di tali censure, la CTR aveva respinto l’impugnazione limitandosi a prendere atto della archiviazione in sede penale per gli stessi fatti e dichiarando di condividere le motivazioni del giudice di primo grado. Per l’effetto censura la sentenza per non avere esaminato i propri motivi di appello e per avere reso una motivazione per relationem insufficiente;
- con il secondo motivo censura la sentenza per aver violato le norme che regolano i rapporti tra processo tributario e processo penale.
Alcuni orientamenti precedenti
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 13979, dell’8 luglio 2016, ha affermato che le prove che scagionano il contribuente dalle accuse di frode fiscale non sono sufficienti, da sole, a far cadere l’accertamento.
Nel caso in esame il contribuente era finito sotto inchiesta con l’accusa di frode fiscale, per aver emesso fatture false; nel dibattimento penale era però uscito indenne dal processo con una assoluzione piena. A seguito di tale motivo i giudici tributari del merito in entrambi i giudizi avevano annullato l’accertamento della maggior IVA a suo carico. La Corte di Cassazione aveva ribaltato la sentenza dei giudici del merito evidenziando che le presunzioni in questione per conseguenza operano, essendosene verificati i presupposti di fatto, dati dalle “differenze inventariali indicate in narrativa e inidonee a superarle sono gli elementi ritraibili dalla sentenza penale di assoluzione” valorizzati nei due gradi di giudizio; esse sono difatti annoverabili tra le presunzioni legali “miste”, che consentono la prova contraria da parte del contribuente, ma solo “entro i limiti di oggetto e di mezzi di prova prefigurati dal legislatore e da quest’ultimo previsti ad evidenti fini antielusivi”.
La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 16853, del 19 giugno 2024, ha affermato che l’assoluzione dell’amministratore dalle accuse di frode scale non fa cadere l’accertamento a carico della società.
La sentenza della Cassazione
Osservano i giudici di legittimità che per orientamento consolidato della Cassazione gli estremi della nullità processuale della sentenza sono integrati nell’ipotesi di assenza della motivazione, quando cioè non sia possibile individuare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione, ovvero nel caso di motivazione solo apparente, che non costituisce espressione di un autonomo processo deliberativo, quale la sentenza di appello motivata per relationem alla sentenza di primo grado.
Anche con specifico riferimento al processo tributario la Cassazione evidenzia che è nulla, per violazione degli artt. 36 e 61 del D.Lgs. n. 546/1992; la sentenza della “commissione tributaria regionale è completamente priva dell’illustrazione delle censure mosse dall’appellante alla decisione di primo grado e delle considerazioni che hanno indotto la commissione a disattenderle e che si sia limitata a motivare per relationem alla sentenza impugnata mediante la mera adesione ad essa, poiché, in tal modo, resta impossibile l’individuazione del thema decidendum e delle ragioni poste a fondamento della decisione e non può ritenersi che la condivisione della motivazione impugnata sia stata raggiunta attraverso l’esame e la valutazione dell’infondatezza dei motivi di gravame”.
Osservano i giudici di legittimità che la sentenza della CTR ha preso atto dell’archiviazione disposta dal GIP in sede penale rilevando, con ragionamento meramente tautologico, che se il giudice avesse ravvisato gli elementi costitutivi del reato non avrebbe certamente disposto l’archiviazione del procedimento; per altro verso, si è limitata a condividere le motivazioni della sentenza di primo grado senza nemmeno farsi carico di esaminare le censure mosse con l’appello.
Osserva la Cassazione che, con riferimento al secondo motivo di ricorso, il provvedimento di archiviazione pronunciato in sede penale non impedisce che lo stesso fatto venga diversamente definito, valutato e qualificato dal giudice tributario, poiché, a differenza della sentenza pronunciata all’esito del dibattimento, detto decreto ha per presupposto la mancanza di un processo e non dà luogo ad alcuna preclusione, non rientrando nemmeno tra i provvedimenti dotati di autorità di cosa giudicata giusta il disposto dell’art. 654 c.p.p.
La Corte di Cassazione, in conclusione, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado che in diversa composizione provvederà anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
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