CIRCOLARE MONOGRAFICA
A CURA DI STUDIO TRIBUTARIO GAVIOLI & ASSOCIATI | 10 SETTEMBRE 2025
Non è licenziabile un dipendente che rifiuta un trasferimento ad un’altra sede se le nuove mansioni proposte sono inferiori rispetto a quelle precedentemente svolte
Non si puòlicenziare un dipendente che rifiuta un trasferimento ad un’altra sede se le nuove mansioni proposte sono inferiori rispetto a quelle precedentemente svolte; la mancata ottemperanza al provvedimento dell’impresa è giustificata, in quanto proporzionata all’inadempimento del datore di lavoro stesso. Così la Cassazione con Ordinanza n. 21965/2025 .
Premessa
La recente Ordinanza della Cassazione n. 21965 del 30 luglio, che ha sostanzialmente ritenuto illegittimo il licenziamento di un dipendente che ha rifiutato il trasferimento in altra sede e con mansioni inferiori, ci consente di analizzare una casistica sempre più frequente nella giurisprudenza di legittimità che è favorevole ad accogliere più le motivazioni del dipendente che quelle del datore di lavoro.
Di seguito analizziamo una recentissima sentenza e, a seguire in tabella, si riassumono alcuni orientamenti giurisprudenziali inerenti l’argomento oggetto del presente approfondimento.
Rifiuto del trasferimento e mansioni inferiori
Nel caso della sentenza suindicata la Corte d’appello aveva respinto il reclamo proposto da una società confermando la sentenza di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un dipendente nell’agosto del 2022, applicando la tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma 4, della Legge n. 300/1970, come modificato dalla Legge n. 92/2012.
La sentenza impugnata ha appurato, in conformità al tribunale, che la dipendente era stata in Cassa integrazione più a lungo degli altri dipendenti e poi trasferita in un’altra sede in quanto il legale rappresentante non “la voleva più vedere”; inoltre, che le mansioni assegnatele presso tale sede non erano rispondenti al suo livello di inquadramento bensì inferiori. La Corte territoriale ha quindi ritenuto giustificata la mancata ottemperanza della dipendente al provvedimento datoriale di assegnazione alla sede, sia in virtù del disposto dell’art. 1460 c.c. e sia per il rilievo che gli atti nulli non producono effetti, con conseguente insussistenza del fatto posto a base del licenziamento vale a dire l’assenza ingiustificata presso la sede di ultima destinazione.
La società ha proposto ricorso in Cassazione che però ha integralmente respinto le motivazioni. I giudici di legittimità evidenziano anzitutto, che l’obbligo della datrice di lavoro di assegnare la dipendente alle mansioni proprie del suo livello di inquadramento (nella specie, il sesto) si fonda su un titolo giudiziale, il giudicato cautelare, rispetto al quale nessuna incidenza modificativa potevano avere le deduzioni successive di ricorrenza dei requisiti di cui all’art. 2103, comma 2 c.c. novellato. Da questo punto di vista, la critica della società ricorrente non coglie la ratio decidendi della decisione impugnata; inoltre, la Corte del merito ha anche accertato, in fatto, la mancanza dei requisiti richiesti dalla citata disposizione (specificamente, la reale modifica degli assetti organizzativi incidente sulla posizione della lavoratrice) e le censure che investono tale accertamento fattuale non possono trovare ingresso in sede di legittimità.
La Cassazione analizza, successivamente, la tesi della società ricorrente la quale ha sostenuto che il rifiuto della dipendente di riprendere servizio presso la sede doveva essere giudicato illegittimo in quanto non proporzionato al dedotto inadempimento datoriale, consistito nel demansionamento e nel mancato pagamento delle retribuzioni da aprile a giugno 2022. La società contesta che la valutazione di proporzionalità della reazione posta in essere dalla dipendente possa svolgersi avendo riguardo alla condotta datoriale complessivamente tenuta o, addirittura, supponendo un unitario disegno datoriale pregiudizievole per la lavoratrice.

Si è, ad esempio, ritenuto che il lavoratore adibito a mansioni non rispondenti alla qualifica può chiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi senza avallo giudiziario di eseguire la prestazione richiestagli, essendo egli tenuto a osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartite dall’imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., da inadempimento del datore di lavoro, da applicarsi alla stregua del principio sancito dall’articolo 41 Cost., e potendo egli invocare l’art. 146 solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro o che sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali lavoratore medesimo.
Nella sentenza Cass. n. 4060/2008 si è ribadito che “il rifiuto del lavoratore di ottemperare al provvedimento del datore di lavoro di trasferimento ad una diversa sede, ove giustificato dalla contestuale assegnazione a mansioni asseritamente dequalificanti, impone una valutazione comparativa, da parte del giudice di merito, dei comportamenti di entrambe le parti, onde accertare la congruità tra le mansioni svolte dal lavoratore nella sede di provenienza e quelle assegnate nella sede di destinazione; queste ultime, peraltro, debbono essere vagliate indipendentemente dal loro concreto svolgimento, non essendo accompagnati i provvedimenti aziendali da una presunzione di legittimità che ne imponga l’ottemperanza fino ad un diverso accertamento in giudizio“.
Nel caso in esame, a fronte di obblighi inadempiuti dalla società, incidenti su aspetti essenziali del rapporto di lavoro, la valutazione della Corte territoriale, di legittimità del rifiuto opposto dalla lavoratrice, non oltrepassa quindi i confini della proporzionalità e dei reciproci obblighi di correttezza e buona fede.
La Cassazione, in definitiva, ha respinto il ricorso della società.
Orientamenti giurisprudenziali
Licenziamento discriminatorio se il dipendente “in 104” rifiuta il trasferimento |
Vi sono i requisiti per il licenziamento discriminatorio per il dipendente che, anche se lavoratore non è un disabile ma assiste un familiare invalido grazie ai benefici della Legge n. 104/1992 e rifiuta il trasferimento; è quanto affermato dalla Cassazione con l’Ordinanza n. 13934 del 20 maggio 2024.Il Tribunale ordinario, decidendo sull’impugnativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad un dipendente di una SRL, in parziale accoglimento delle domande della lavoratrice istante, dichiarava risolto il rapporto di lavoro tra le parti e condannava la società convenuta al pagamento di 20 mensilità dell’ultima retribuzione.La Corte d’appello rigettava l’appello principale proposto dalla contribuente contro la sentenza di primo grado; accoglieva l’appello incidentale della società, e per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, che nel resto confermava, quantificava l’indennità risarcitoria, al cui pagamento la società appellata era stata condannata in primo grado, in quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori.I giudici del merito di secondo grado osservavano che la società non aveva, però, allegato nulla in ordine alla valutazione della differente posizione soggettiva della contribuente in quanto titolare dei benefici di cui alla Legge n. 104/1992, di cui non aveva assolutamente tenuto conto “formulando per la lavoratrice, in alternativa al licenziamento, la medesima soluzione adottata per gli altri lavoratori, prescindendo completamente dall’ideare o proporre soluzioni alternative e personalizzate, volte a contemperare le legittime esigenze aziendali con il diritto all’assistenza ex art. 33, commi 3 e 5, Legge n. 104/1992 di cui è portatrice la ricorrente“, come ritenuto dal primo giudice.La Corte, tuttavia, riconosceva soltanto un risarcimento alla dipendente pari a 15 mensilità.Avverso la sentenza dei giudici del merito di secondo grado la dipendente (o meglio la ex dipendente) ricorreva in Cassazione.Osservava la Cassazione che la dipendente ricorrente evidenziava che la Corte di Appello, pur riscontrando (al pari del giudice di primo grado) una discriminazione indiretta tra lavoratori direttamente comparabili trattati in maniera diseguale in sede di “riorganizzazione e di efficientamento economico-finanziario dell’attività d’impresa”, non ne avrebbe tratto “le dovute conseguenze sul piano delle tutele applicabili”.In realtà, la Corte di merito non aveva esplicitamente affermato di aver riscontrato una forma di discriminazione indiretta, ma, tornando sul tema dell’obbligo di c.d. repèchage, ha preso le mosse dal preliminare rilievo che la relativa verifica di assolvimento di tale obbligo datoriale “in presenza di un dipendente destinatario dei benefici di cui alla Legge n. 104/1992, sarà particolarmente pregnante dovendosi accertare rigorosamente che non vi siano posti disponibili in luoghi più vicini al domicilio del soggetto bisognoso di accudimento“.Nel caso di specie la lavoratrice aveva senz’altro allegato e dimostrato il c.d. fattore di rischio, ossia il dato che il coniuge della lavoratrice era portatore di handicap in situazione di gravità, sicché godeva dei relativi benefici ex art. 33, Legge n. 104/1992 per assistere lo stesso; così come aveva allegato la presenza di sedi diverse da quelle offerte dalla società con le proposte di trasferimento, più vicine alla residenza del disabile; sulla questione, osservava la Cassazione, i giudici del doppio grado di giudizio di merito non hanno posto alcuna discussione.Occorre porre in luce che la Corte di Giustizia UE ha da tempo affermato che la direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, C-2000/78/Ce, che stabilisce un quadro generale per la “parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e, in particolare, i suoi art. 1 e 2, n. 1 e 2, lett. a), devono essere interpretati nel senso che il divieto di discriminazione diretta previsto non è limitato alle sole persone che siano esse stesse disabili. Conseguentemente qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore che non sia esso stesso disabile, in modo sfavorevole rispetto al modo in cui è, è stato o sarebbe trattato un altro lavoratore in una situazione analoga, e sia provato che il trattamento sfavorevole di cui tale lavoratore è vittima è causato dalla disabilità del figlio, al quale presta la parte essenziale delle cure di cui quest’ultimo ha bisogno, un siffatto trattamento viola il divieto di discriminazione diretta enunciato al detto art. 2, n. 2, lett. a) (così Corte Giustizia UE, grande sezione, 17 luglio 2008, n. 303)”.Per la Cassazione non vi è ragione di non seguire tale impostazione nel nostro ordinamento che ha dato specifica attuazione alla Direttiva 2000/78/CE , con il D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216.Pertanto, conclude la Cassazione, la sentenza impugnata dev’essere cassata con rinvio alla medesima Corte territoriale che, oltre a regolare le spese processuali, comprese quelle del giudizio di cassazione, dovrà riesaminare il caso anzitutto verificando se il licenziamento intimato alla lavoratrice integri discriminazione diretta nei suoi confronti, in base ai principi di diritto e, qualora invece confermi soltanto una mancata dimostrazione dell’adempimento dell’obbligo di reimpiego della lavoratrice, dovrà comunque fare applicazione della tutela reintegratoria di cui all’art. 18, comma 4, Legge n. 300/1970. |
Licenziamento illegittimo per il dipendente che rifiuta il trasferimento ma rinuncia alle mansioni superiori per rimanere nella stessa sede |
La Cassazione con la Sentenza n. 14829/2015 ha affermato che è da ritersi illegittimo il licenziamento del dipendente che rifiuta di prendere servizio nella sede dove è stato trasferito ma è disponibile a rinunciare alle mansioni superiori pur di rimanere nello stesso ufficio. Possono propendere a favore della scelta del lavoratore anche le comprovate difficoltà, legate a motivi fisici, di raggiungere la nuova destinazione molto lontana da casa.Nel caso in esame secondo la società, infatti, non essendoci in quella sede posti liberi con le mansioni della ricorrente, non si poteva far altro che procedere al suo spostamento. La lavoratrice, però, non ha mai preso servizio nel nuovo ufficio e, quindi, dopo l’irrogazione di due sanzioni disciplinari conservative è scattato l’ennesimo licenziamento per prolungata assenza ingiufisticata. I giudici di legittimità hanno affermato che nessuna censura può essere mossa alla pronuncia della Corte d’appello dal momento che il collegio di secondo grado, prima di dichiarare nullo il licenziamento, si è dilungato sulla disponibilità della lavoratrice a rimanere nella sede originaria rinunciando al proprio diritto, giudizialmente accertato, allo svolgimento di mansioni superiori in funzione della qualifica riconosciutale. Lo stesso giudice, ha proseguito la Cassazione, ha anche accertato, mediante apposita istruttoria, l’esistenza di un danno fisico che avrebbe patito la lavoratrice nel raggiungere i nuovi uffici.Per la Cassazione tali motivazioni rendono pienamente legittimo il giudizio di nullità del licenziamento irrogato alla lavoratrice. |
Rifiuto del trasferimento per il dipendente: illegittimo il licenziamento del datore di lavoro che lo adibisce a mansioni inferiori |
La Cassazione con la Sentenza n. 5780 del 12 aprile 2012, ha affermato che il dipendente che rifiuta il trasferimento in un’altra città non autorizza per ciò solo il datore ad adibirlo a compiti meno rilevanti da quelli previsti dalla qualifica professionale di riferimento: il patto di demansionamento si giustifica soltanto quando l’unica alternativa per il dipendente è la perdita del posto di lavoro.Il fatto è che il dipendente non voleva spostarsi e rifiutava in via preventiva il trasferimento, mostrandosi inizialmente disponibile a disimpegnare attività tipiche di una qualifica inferiore, salvo poi ottenere il riconoscimento del diritto a essere adibito a mansioni proprie e al risarcimento del danno. L’errore dell’azienda, indicato dagli stessi giudici di legittimità, sta nel non avere mai formalizzato il trasferimento. |
Illegittimo il licenziamento del dipendente per giustificato motivo senza la prova del suo ricollocamento |
La Corte di Cassazione con la Sentenza n. 192 dell’8 gennaio 2019, ha rigettato il ricorso di una società nei confronti di una sua dipendente; per i giudici di legittimità va annullato il licenziamento per giustificato motivo se il datore di lavoro non è in grado di dimostrare che non è stato possibile il repèchage del lavoratore.La società nel ricorso in Cassazione contesta che l’impossibilità di repèchage del lavoratore faccia parte delle ragioni del licenziamento alla stessa stregua delle ragioni che direttamente l’hanno determinato e sulle quali unicamente si verifica il nesso di causalità.Solo queste ultime sono le ragioni che effettivamente hanno indotto al licenziamento, come tali da provare in positivo, mentre il ripescaggio è un contro limite, ovvero un’eccezione del lavoratore, ossia un fatto impeditivo o estintivo di quelle ragioni e perciò del legittimo esercizio del diritto potestativo di recesso dal contratto di lavoro. La società ricorrente critica la statuizione del giudice del ricorso sulla mancanza di prova da parte datoriale, circa la reperibilità di una diversa collocazione della lavoratrice in ambito aziendale, nonostante la carenza assoluta di allegazione da parte della dipendente, di eventuali posti alternativi, in cui essere collocata.I giudici di legittimità osservano che la Corte di merito, ha innanzitutto evidenziato l’infondatezza delle ragioni di ricorso laddove assumevano l’esistenza di una “separazione economico-funzionale ed organizzativa fra le attività svolte presso le diverse sedi della società, smentendo la tesi di una diversità ontologica fra le organizzazioni produttive, delle quali l’una era dedita al servizio di agenzia viaggi e l’altra aveva ad oggetto il core business della attività di tour operator, al servizio delle strutture alberghiere”.La Sentenza della Corte di merito, evidenzia la Cassazione, ha infatti accertato che le attività in questione componevano un’unica realtà economico-fìnanziaria connotata dalla omogeneità e dalla natura sinergica delle funzioni espletate nelle unità produttive, che confluivano in una unitaria struttura organizzativa. |
Riferimenti normativi:
- Legge 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 4
- Corte di cassazione, Ordinanza 30 luglio 2025, n. 21965
- Corte di cassazione, Ordinanza 20 maggio 2024, n. 13934
- Corte di cassazione, Sentenza 8 gennaio 2019, n. 192
- Corte di cassazione, Sentenza 12 aprile 2012, n. 5780
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