CIRCOLARE MONOGRAFICA
DI FRANCESCA BICICCHI – STUDIO NEVIO BIANCHI & PARTNERS | 15 OTTOBRE 2025
Cornice normativa, il D.Lgs. n. 81/2015 e la disciplina del contratto a termine
Riassumere un lavoratore già legato all’azienda da un precedente contratto a tempo indeterminato è possibile, ma entro limiti precisi. La normativa consente questa flessibilità solo se sorretta da reali esigenze temporanee e nel rispetto delle tutele previste.
Premessa
La flessibilità occupazionale è ormai diventata uno degli strumenti cardine delle moderne politiche del lavoro. Tuttavia, proprio in questo ambito, la linea di confine tra ciò che è lecito e ciò che, invece, può configurare un abuso può essere sottile. Uno dei casi delicati riguarda la possibilitàper un datore di lavoro di assumere un dipendente con contratto a tempo determinato dopo che quest’ultimo ha già avuto con la medesima azienda un rapporto a tempo indeterminato, magari interrotto per licenziamento o dimissioni.
Il quesito è più frequente di quanto si possa pensare, soprattutto nei settori in cui la stagionalità o la ciclicità produttiva impongono continue rimodulazioni del personale.
Sul piano strettamente legale, non esiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto di riassumere un ex dipendente con contratto a termine, anche se in passato il rapporto era di natura stabile. Tuttavia, la legittimità di tale operazione deve essere valutata alla luce delle norme che regolano i contratti a tempo determinato, delle tutele contro i licenziamenti illegittimi e, più in generale, del principio di buona fede e correttezza che permea tutti i rapporti di lavoro.
La normativa non prevede neppure un limite alle volte in cui un dipendente può essere riassunto dal medesimo datore di lavoro, ma occorre, comunque, rispettare le condizioni legali legate ai contratti di lavoro e al tipo di cessazione precedente. Allo stesso modo, non è previsto un intervallo di tempo da rispettare tra il licenziamento e l’eventuale riassunzione, ma è importante che la riassunzione rispetti le leggi in materia di contratti, soprattutto quando si tratta di contratti a termine dove esistono limiti di durata complessivi.
La cornice normativa: il D.Lgs. n. 81/2015 e la disciplina del contratto a termine
Il riferimento principale è il D.Lgs. n. 81/2015, che ha raccolto e riordinato la normativa sui contratti di lavoro, introducendo anche i limiti e le condizioni per l’utilizzo del contratto a tempo determinato. L’articolo 19 del decreto stabilisce, in particolare, che la durata complessiva del contratto a termine tra le medesime parti non può superare i 12 mesi, estendibili a 24, ma solamente in presenza di causali specifiche, quali esigenze temporanee e oggettive estranee all’attività ordinaria, sostituzione di altri lavoratori o incrementi temporanei e non programmabili dell’attività aziendale. In assenza di tali condizioni, il rapporto si considera a tempo indeterminato sin dalla sua origine.
La normativa non impedisce, quindi, a un datore di lavoro di stipulare un contratto a termine con un ex dipendente che in passato aveva un contratto a tempo indeterminato, ma impone che tale scelta sia sorretta da motivazioni reali e documentabili. Diversamente, l’operazione potrebbe essere interpretata come un tentativo di eludere le tutele proprie del rapporto stabile, con il rischio che il contratto venga dichiarato nullo e convertito in tempo indeterminato.
Licenziamento e riassunzione: la liceità del doppio passaggio
Sotto il profilo generale, è perfettamente legittimo riassumere un lavoratore che sia stato precedentemente licenziato o che si sia dimesso volontariamente. La legge italiana, infatti, non pone alcuna preclusione in tal senso: non vi è alcuna norma che vieti di riattivare un rapporto con la stessa persona, indipendentemente dalla natura e dalle modalità della precedente cessazione.
Tuttavia, la legittimità di questa riassunzione va letta con cautela. Un licenziamento seguito da una nuova assunzione, soprattutto se con condizioni peggiorative o con minori tutele, può essere interpretato come una condotta elusiva. Ad esempio, il datore di lavoro non può licenziare un dipendente a tempo indeterminato per poi riassumerlo con un contratto a termine o part-time solo per ridurre il costo del lavoro o per aggirare gli obblighi di legge. In tali casi, i giudici tendono a riconoscere la continuità del rapporto, considerando la riassunzione come un mero prolungamento, e quindi come un abuso del diritto.
Riassunzione dopo le dimissioni: libertà e limiti
Quando è il lavoratore a interrompere il rapporto, la riassunzione è in linea di principio libera. Nulla impedisce che un dipendente che si è dimesso per motivi personali o per perseguire un’altra opportunità lavorativa venga nuovamente assunto, anche a breve distanza di tempo. In molti casi, il ritorno in azienda rappresenta un’opportunità reciproca: il lavoratore riporta competenze e conoscenze del contesto produttivo, mentre l’impresa beneficia di un’integrazione rapida e priva di costi formativi elevati.
La normativa prevede tuttavia che le dimissioni siano valide solo se presentate telematicamente secondo la procedura introdotta dall’articolo 26, comma 1, del Decreto Legislativo n. 151/2015. Entro sette giorni, il lavoratore può revocare la propria decisione, con effetto retroattivo; in questo caso il rapporto si considera come mai cessato. Diversamente, una volta decorso il termine, eventuali riassunzioni costituiranno nuovi rapporti di lavoro, autonomi rispetto al precedente.
Nel settore pubblico, invece, la riassunzione dopo le dimissioni è soggetta a limiti più stringenti. L’articolo 132 del Testo Unico sul Pubblico Impiego stabilisce che la riammissione in servizio può avvenire solo a discrezione dell’amministrazione e nei limiti dei posti vacanti, previa verifica del mantenimento dei requisiti professionali.
Licenziamento e reintegrazione: quando la riassunzione è un obbligo
In caso di licenziamento illegittimo, la riassunzione non è una scelta, ma bensì rappresenta un obbligo. La disciplina varia a seconda della dimensione aziendale e del regime applicabile. Laddove il giudice accerti l’illegittimità del licenziamento, il datore di lavoro può essere condannato a reintegrare il lavoratore, restituendolo al suo posto con il riconoscimento dell’anzianità e del risarcimento per il periodo di estromissione.
Questa forma di riassunzione, detta reintegrazione, è, quindi, una conseguenza diretta della tutela giudiziale e non una libera decisione dell’impresa. In tal senso, non si tratta di un nuovo contratto ma della prosecuzione del precedente, come se il licenziamento non fosse mai avvenuto.
Il caso del contratto a termine dopo un rapporto stabile
Il tema più controverso è quello della riassunzione a tempo determinato dopo un precedente rapporto a tempo indeterminato. In astratto, nulla vieta tale passaggio; nella pratica, però, è necessario dimostrare che la nuova assunzione risponde a un’esigenza temporanea e oggettiva. La Cassazione, in più occasioni, ha chiarito che l’utilizzo del contratto a termine in queste situazioni non deve mascherare un bisogno stabile dell’impresa. Nel caso in cui un dipendente venga licenziato in maniera legittima, come nel caso di giusta causa o giustificato motivo, nulla impedisce la possibilità di una riassunzione futura.
Un esempio tipico è quello del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo (ad esempio, soppressione del posto o riduzione dell’attività) che, dopo qualche mese, viene richiamato per coprire esigenze contingenti.
In questo caso, la riassunzione è legittima se le circostanze giustificano un fabbisogno temporaneo.
Se invece le mansioni e le condizioni restano sostanzialmente le stesse di prima, l’operazione può essere considerata un abuso e condurre alla conversione del contratto.
Lo “stop and go”: intervallo obbligatorio tra due contratti a termine
Un principio cardine introdotto dal D.Lgs. n. 81/2015 è quello dello “stop and go”, il quale prevede che debba trascorrere un intervallo minimo tra due contratti a termine stipulati con il medesimo lavoratore. Tale intervallo è pari a 10 giorni nel caso in cui il primo contratto abbia avuto una durata inferiore a 6 mesi e pari a 20 giorni se la durata del contratto è stata superiore. La ratio della norma è quella di evitare che contratti consecutivi si traducano in una continuità di fatto, in contrasto con la natura temporanea del rapporto.
Nel caso in cui l’intervallo non venga rispettato, il secondo contratto verrà considerato a tempo indeterminato sin dall’inizio. Questo principio, pur riferendosi formalmente ai contratti a termine consecutivi, può assumere rilievo anche nei casi di riassunzione dopo un contratto stabile, laddove il datore tenti di ricorrere a una forma precaria senza un’effettiva discontinuità.
Diritto di precedenza: la tutela del lavoratore già occupato
Un altro elemento di rilievo è il diritto di precedenza. Previsto dall’articolo 24 del citato D.Lgs. n. 81/2015, tale norma riconosce ai lavoratori a termine che abbiano prestato attività per almeno 6 mesi presso la stessa azienda il diritto ad essere riassunti, con priorità, in caso di nuove assunzioni a tempo indeterminato per mansioni equivalenti. Analogo diritto spetta ai lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo, in caso di riapertura di posizioni analoghe entro sei mesi dal licenziamento.
Il lavoratore deve però manifestare per iscritto la volontà di avvalersi di tale diritto, entro un termine prefissato. In mancanza, l’azienda non ha obblighi specifici. L’obiettivo del legislatore è favorire la stabilità dei rapporti e scoraggiare pratiche di sostituzione sistematica del personale.
Riassunzione e licenziamento collettivo
Nell’ambito dei licenziamenti collettivi, il quadro cambia ulteriormente. In questi casi, la legge può imporre all’azienda di riassumere, con precedenza, i lavoratori licenziati se, entro un determinato periodo, si rendono disponibili nuove posizioni per le stesse mansioni. Tale meccanismo mira a garantire una forma di tutela occupazionale anche dopo la cessazione del rapporto, evitando che l’azienda assuma nuovi lavoratori ignorando chi è stato precedentemente espulso per ragioni economiche.
Profili di abuso e rischio di elusione
Il principale rischio per il datore di lavoro che riassume un ex dipendente con contratto a termine è quello di incorrere in una contestazione per frode alla legge o elusione delle tutele. Laddove la riassunzione avvenga a breve distanza temporale e senza mutamenti sostanziali nelle mansioni, la giurisprudenza tende a considerare la continuità del rapporto come prova di un intento elusivo.
La conseguenza è la conversione automatica del contratto in tempo indeterminato, con obbligo di corresponsione delle differenze retributive e contributive maturate.
Il valore della consulenza del lavoro
In un contesto così articolato, la figura del consulente del lavoro assume un ruolo centrale. Sia le imprese sia i lavoratori hanno interesse a gestire correttamente i passaggi tra cessazione e riassunzione, evitando errori che possono comportare sanzioni, contenziosi o riconoscimenti retroattivi di anzianità. Il consulente, valutando la situazione concreta, può verificare la sussistenza delle causali, i tempi dello “stop and go”, l’eventuale diritto di precedenza e le condizioni per la stipula del nuovo contratto.
Conclusioni
In definitiva, riassumere un lavoratore con contratto a termine dopo un precedente rapporto a tempo indeterminato è possibile, ma solo se sorretto da reali motivazioni temporanee e nel pieno rispetto dei limiti normativi. La legge non vieta la riassunzione, ma tutela la sostanza del rapporto: se dietro la forma del contratto a termine si cela un’esigenza stabile, l’ordinamento reagisce convertendo il rapporto in indeterminato e sanzionando il datore.
Il principio di fondo resta quello della buona fede contrattuale: ogni riassunzione deve avvenire nel rispetto della trasparenza, della correttezza e dell’equilibrio tra le parti. In un mercato del lavoro sempre più flessibile, la sfida è proprio questa: conciliare la libertà organizzativa dell’impresa con la stabilità e la dignità professionale dei lavoratori.
Riferimenti normativi:
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