COMMENTO
A CURA DI STUDIO TRIBUTARIO GAVIOLI & ASSOCIATI | 21 OTTOBRE 2025
In tema di risarcimento del danno alla salute conseguente all’attività lavorativa, il nesso causale rilevante ai fini del riconoscimento dell’equo indennizzo per la causa di servizio è identico a quello da provare ai fini della condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, quando si faccia riferimento alla medesima prestazione lavorativa e al medesimo evento dannoso. Così la Corte di cassazione con l’Ordinanza n. 26923 del 7 ottobre 2025.
Premessa
Con l’Ordinanza n. 26923 del 7 ottobre 2025, la Corte di Cassazione ha stabilito che il datore di lavoro è chiamato a risarcire gli eredi di un dipendente stressato, morto purtroppo di infarto sul luogo di lavoro durante il servizio.
Il contenzioso: lo stress come causa della morte del dipendente dovuto ad orari continuativi di lavoro
La vicenda vede contrapposti una azienda sanitaria e gli eredi di un medico deceduto.
L’azienda sanitaria era stata chiamata in causa dai congiunti di un medico anestesista in servizio presso un presidio ospedaliero che era deceduto durante un turno di lavoro nell’agosto del 2007 in seguito, presumibilmente, al fatto che era rimasto in servizio per una intera notte di agosto, nel corso della quale aveva partecipato ad un intervento d’urgenza e aveva, poi, continuato a monitorare il decorso post-operatorio della paziente anche nelle ore seguenti; alle ore 7 del mattino del giorno successivo il medico era stato colto da infarto del miocardio al quale era seguito il decesso, nonostante le manovre rianimatorie apprestate dai colleghi.
Su istanza del coniuge era stato riconosciuto l’infortunio per causa di servizio ed era stato liquidato un equo indennizzo agli eredi.
La vicenda era stata denunciata all’autorità giudiziaria che aveva avviato un procedimento penale a carico del primario ad interim e responsabile dell’U.O. di Anestesia del Presidio Ospedaliero e del medico addetto al turno di reperibilità la notte del sinistro.
Nell’odierno giudizio i ricorrenti avevano lamentato l’omessa adozione da parte dell’Azienda sanitaria delle misure volte alla salvaguardia dell’integrità psico-fisica del dipendente, deceduto – a loro dire – a causa dell’eccessivo carico di lavoro ed avevano chiesto, quindi, al Tribunale l’accertamento della responsabilità ai sensi dell’art. 2087 c.c.
Dopo un lungo contenzioso, all’esito della sentenza sfavorevole della Corte di Appello, gli eredi sono ricorsi in Cassazione.
Per i ricorrenti la Corte d’Appello avrebbe errato nel ritenere che l’azienda sanitaria andasse immune da censure organizzative, senza valorizzare la plurima violazione delle varie norme in tema di durata massima dell’orario di lavoro, poste a presidio della sicurezza del lavoratore e della qualità del servizio prestato in favore della utenza.
Ciò in considerazione della circostanza pacifica che il medico deceduto aveva prestato servizio per quasi due giorni ininterrottamente.
Conseguentemente, stante la palese violazione delle superiori regole di rango normativo e contrattuale che prevedono per i dirigenti medici che svolgono lavoro notturno un limite orario massimo di 12 ore continuative, la Corte territoriale avrebbe erroneamente assolto l’Azienda Sanitaria da ogni mancanza organizzativa sebbene la prestazione lavorativa notturna si sia protratta nella specie per quasi 16 ore continuative per di più situazione di continuo stress.
Grava sul datore di lavoro dimostrare che l’evento luttuoso non sia a lui imputabile
Per i giudici di legittimità il ricorso è fondato. In tema di risarcimento del danno alla salute conseguente all’attività lavorativa, il nesso causale rilevante ai fini del riconoscimento dell’equo indennizzo per la causa di servizio è identico a quello da provare ai fini della condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno quando si faccia riferimento alla medesima prestazione lavorativa e al medesimo evento dannoso; ne consegue che, una volta provato il predetto nesso causale, grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso (cfr. Cass. Sentenza n. 24804 del 18 agosto 2023).
Orbene, la Corte territoriale ha errato nel ritenere insussistente la prova del nesso causale fra decesso e attività lavorativa nella misura in cui i ricorrenti non hanno, dunque, fornito prova del nesso causale, nei termini chiariti dalla Suprema Corte con la sentenza suindicata, né, in ogni caso, tale prova poteva essere agevolata sulla scorta dei principi affermati dalla medesima Corte, dall’accertamento della dipendenza da causa di servizio fondata su un’indagine – quella del Comitato di Verifica – che si riferisce all’intero periodo di attività professionale del medico protrattasi per quasi un trentennio presso l’azienda appellata, piuttosto che al più limitato turno di lavoro oggetto di analisi.
Una volta provato tale nesso causale, “grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso” (cfr. Cass. n. 20889/2018; Cass. n. 17017/2007; Cass. n. 4005/2005).
Nel caso di specie, la violazione dell’art. 2087 c.c. risulta integrata nell’avere la Corte territoriale valutato di collegare l’evento letale al solo ultimo turno del medico, pretermettendo ogni valutazione circa l’incidenza causale di tutto l’atteggiarsi del rapporto come regola causale del ‘più probabile che non’.
Inoltre, dalla sentenza impugnata non risulta che l’Azienda Ospedaliera abbia nemmeno allegato di avere adottato cautele volte a impedire il verificarsi dell’evento dannoso il cui nesso causale con la prestazione lavorativa non è (e non può essere) in discussione, né risulta avere prospettato in alcun modo l’impossibilità di adottare cautele adeguate.
In particolare, dato atto della sussistenza del nesso causale tra prestazione lavorativa e danno ricollegabile non al singolo episodio, ma all’incidenza dell’intero atteggiarsi del rapporto di lavoro caratterizzato da un lato da turni altamente stressanti, dall’altro dalla insussistenza di pregresse patologie aventi incidenza causale ed ancora dall’avvenuto riconoscimento dell’equo indennizzo, è da rilevarsi che nel caso di specie l’inadempimento (più precisamente, il non esatto adempimento) del datore di lavoro non viene accertato dalla Corte territoriale sulla base dell’erronea affermazione che il dipendente non avesse l’onere probatorio del nesso causale, come accertato in sede di riconoscimento della causa servizio, con conseguente mancata valutazione della condotta datoriale in termini di inadempimento dell’obbligo contrattuale di tutelare l’integrità fisica del lavoratore.
Gravava pertanto sul datore di lavoro l’onere di provare che il danno riconducibile alla prestazione di lavoro – “è stato determinato da impossibilità della [esatta] prestazione derivante da causa a lui non imputabile” (art. 1218 c.c.).
A tale conclusione si giunge applicando il principio generale in materia di ripartizione degli oneri probatori nelle cause di risarcimento danni da inadempimento contrattuale – che non soffre eccezione nel caso della responsabilità per violazione dell’obbligo posto a carico del datore di lavoro dall’art. 2087 c.c. (Cass. n. 34968/2022 ) – e non certo configurando tale ultima responsabilità in termini di responsabilità oggettiva, come paventato nella sentenza impugnata.
La Corte accoglie il motivo di ricorso e cassa la sentenza rinviandola alla Corte di Appello in diversa composizione anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Riferimenti normativi:
- Codice civile, art. 2087
- Corte di cassazione, Ordinanza 7 ottobre 2025, n. 26923
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