CIRCOLARE TUTTOQUESITI
DI FRANCESCO GERIA – LABORTRE STUDIO ASSOCIATO, CARLA FAVERO | 30 OTTOBRE 2025
Le risposte alle domande dei professionisti
Nella presente circolare viene data risposta ai quesiti pervenuti nella giornata del Master MySolution Lavoro che si è svolto in diretta il 14 ottobre scorso.
Nel corso dell’incontro si è analizzata la disciplina che regola l’attività dei soci, degli amministratori e dei familiari all’interno delle imprese, con particolare attenzione agli aspetti giuridici, fiscali e previdenziali. Sono stati inoltre offerti strumenti teorici e pratici per la corretta gestione dei rapporti di lavoro e degli adempimenti connessi, individuando le criticità più ricorrenti e le soluzioni operative adottabili in azienda.
Quesito 1 – Amministratore e lavoratore subordinato
Domanda
L’amministratore delegato di una società di capitale, non socio, può contemporaneamente svolgere attività di lavoro subordinato (dirigente della stessa)?
Risposta
In primo luogo sarebbe necessario stabilire il peso della delega all’amministratore. Se tale delega risulta limitata (es. delega alla gestione per la sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro), è altresì necessario verificare se l’eventuale prestazione da svolgersi sia non attinente al mandato e delega di amministratore.
Infine, cosa più importante, è da verificare se, in un ambito di rapporto dirigenziale, possa essere comunque e sempre dimostrata la subordinazione nei confronti di terzi (altri amministratori, consiglio di amministrazione, proprietà etc).
Solo in presenza di tali requisiti il cumulo del rapporto di lavoro subordinato – anche con qualifica di dirigente – e l’incarico di amministratore delegato potrebbe coesistere.
Quesito 2 – Il socio lavora ma viene remunerato come amministratore
Domanda
Una situazione che si pensa, purtroppo, frequente: un socio di s.r.l. a ridotta base societaria di fatto lavora in azienda (in officina, come commerciale, come amministrativo, ecc.) ma percepisce solo un compenso amministratore (di importo non marginale) e non un reddito da lavoro dipendente né dividendi a fine anno. Quali i rischi (tributari, previdenziali) per lui e per la società?
Risposta
Come evidenziato nel quesito, tale situazione risulta molto frequente.
In pratica, al fine di “remunerare” la prestazione lavorativa del socio si adotta il compenso amministratore per molteplici motivazioni tra le quali la possibilità di avere un compenso mensile e frequente, il versamento ad una cassa di previdenza (in particolare per i soci industriali), rilevare un costo aziendale deducibile etc. Tale situazione di certo non espone l’azienda a rischi di riqualificazione della prestazione in rapporto di lavoro dipendente, poichè sarebbe necessario dimostrare – in particolare – il vincolo di subordinazione.
Di certo potrebbero esserci rivendicazioni a livello contributivo, qualora l’azienda e l’attività del socio dovessero essere ricondotte ad attività prettamente commerciali. In tal caso potrebbe sussistere l’obbligo della doppia contribuzione ai sensi della Legge n. 662/1996.
Per quanto attiene a problematiche fiscali un eventuale rivendicazione di mancata distribuzione utili potrebbe essere poco efficace stante una imposizione fiscale più bassa rispetto a quella del compenso dell’amministratore (sempre ovviamente in base al valore dei compensi). Potrebbe sussistere eventualmente anche il disconoscimento alla deducibilità del TFM.
Quesito 3 – Prestazioni accessorie
Domanda
Come possono essere inquadrate da un punto di vista previdenziale le prestazioni accessorie di cui all’art. 2435 codice civile per una s.r.l. artigiana e una industria? La loro corresponsione viene fatta sempre con prospetto paga?
Risposta
Le prestazioni accessorie di cui all’art. 2435 del c.c. devono essere attentamente valutate. Tali prestazioni sono da individuare quali obblighi dei soci di svolgere attività a favore della società, oltre ai conferimenti di capitale.
Tali prestazioni devono essere stabilite nello statuto e sono remunerate, ma devono distinguersi dal rapporto di lavoro subordinato. Possono includere consulenze, supporto tecnico o gestione, e devono essere autonome e documentate, con compenso commisurato al valore di mercato. Sono, pertanto, attività che un socio si impegna a svolgere per la società, oltre ai normali doveri statutari. Non sono inquadrabili come rapporto di lavoro subordinato o carica amministrativa, ma come accordo contrattuale autonomo tra socio e società.
L’atto costitutivo o lo statuto devono definire chiaramente il contenuto, la durata, le modalità e il compenso di queste prestazioni. La clausolarelativa alle prestazioni accessorie può essere introdotta anche successivamente alla costituzione della società.
Secondo la giurisprudenza, tali prestazioni possono essere introdotte con un atto diverso dall’atto costitutivo, successivamente alla data di costituzione della società (Cassazione civile, 5 luglio 1978 sentenza n. 3319; Tribunale di Milano 17 aprile 1982). Il riferimento è ad una specifica delibera assembleare. In ogni caso debbono risultare con chiarezza contenuto, durata, modalità e compenso delle prestazioni in parola e le relative sanzioni in caso di inadempimento.
Nonostante quanto indicato dalla giurisprudenza, l’Amministrazione finanziaria non sembra essere dello stesso avviso. Infatti, nella Risoluzione n. 81/E/2002 si afferma che l’obbligazione derivante dalle prestazioni accessorie ha natura propriamente sociale, con tutte le conseguenze tipicamente societarie, con la conclusione che si ritiene che il rapporto (tra società e socio) non possa essere istituito al di fuori dei documenti tipicamente regolatori della vita associativa. Per quanto attiene al contenuto della prestazione, la stessa deve ritenersi liberamente configurabile dalle parti, con la sola eccezione del divieto di erogazione di denaro.
Tale previsione deriva dal fatto che l’accessorietà delle prestazioni deve intendersi aggiuntiva rispetto al conferimento (che solitamente viene fatto in denaro). Il compenso per l’attività lavorativa del socio attraverso le prestazioni accessorie è soggetto all’ordinaria tassazione IRPEF legata al percepimento di redditi da lavoro dipendente.
In particolare, si tratta di redditi assimilati a quello di lavoro dipendente, ex art. 50, co. 1 , lett. c-bis) del TUIR. Per quanto riguarda profili contributivi collegati alle prestazioni accessorie, la tesi circa la loro non assoggettabilità alla Gestione separata ex art. 2, co. 26 della Legge n. 335/1995 nell’ambito delle STP (e per analogia le SRL) può essere sostenuta in base al combinato disposto di due interventi di prassi, ossia la Risoluzione Agenzia Entrate 11 marzo 2002, n. 81 e la Circolare INPS 9 marzo 2018, n. 45. Di fatto, l’INPS permette al socio di essere remunerato, senza dover versare contributi previdenziali alla gestione separata INPS, nel momento in cui il reddito viene attratto alla contribuzione presso la gestione previdenziale di appartenenza, come nel caso della gestione artigiani o commercianti INPS o nel caso in cui il socio sia iscritto ad una propria cassa previdenziale autonoma (caso dei soci che operano a favore di una STP).
Quesito 4 – Lavoro del padre in una s.a.s.
Domanda
In caso di azienda familiare costituita in forma di s.a.s. dove tutti i soci sono familiari l’attività lavorativa svolta dal padre (non socio ma pensionato) potrebbe essere sanzionata?
Risposta
In linea di principio, se l’attività non è riconducibile ad altro rapporto di lavoro (es: rapporto di lavoro subordinato) o a non più di 90 giornate o 720 ore annue non vi è obbligo assicurativo contributivo INPS. Inoltre, se la prestazione del padre pensionato è inferiore a 10 giornate di effettivo lavoro non vi è nemmeno obbligo assicurativo INAIL.
Vi è comunque l’opportunità di valutare la definizione della figura del COADIUTORE del socio che prevede il versamento della contribuzione INPS minima e della contribuzione assicurativa INAIL.
Quesito 5 – Inquadramento del familiare in ambito professionale
Domanda
Come inquadrare il familiare in ambito professionale? Non è possibile assumere la moglie come dipendente del marito, non è possibile iscriverla all’ordine specifico perché non ci sono le corrette caratteristiche. Come fare?
Risposta
Purtroppo, anche in tale contesto la situazione è frequente. Difatti, ai sensi dell’art. 54-septies, c. 6 del TUIR, nella determinazione del reddito da lavoro autonomo “non risultano ammesse in deduzione le spese per i compensi al coniuge, ai figli, affidati o affiliati, minori di età permanentemente inabili al lavoro, nonché gli ascendenti ….“.
Una possibile alternativa, da valutare con estrema attenzione, è quella attinente alla costituzione di una possibile società di servizi compatibile con l’attività svolta o, meglio ancora, al costituzione di Stp – in rispetto del proprio ordinamento professionale – tenuto conto che, di norma, il numero dei soci professionisti e la partecipazione al capitale sociale devono essere tali da determinare la maggioranza di due terzi nelle deliberazioni o decisioni dei soci.
Quesito 6 – Amministratori e benefit
Domanda
Un amministratore senza compenso può essere comunque destinatario di benefits o welfare ?
Risposta
La domanda è abbastanza complessa. Gli amministratori, in linea di principio, possono essere destinatari di fringe benefits e welfare, nel rispetto delle previsioni normative, poiché il loro compenso è definito come reddito assimilato a quello da lavoro dipendente. Ne consegue, pertanto, che a loro favore sono applicabili tutte le disposizioni di cui all’art. 51 del TUIR.
In merito ad amministratori non percettori di compensi e riconoscimenti di fringe benefits, l’Agenzia delle Entrate con la propria risposta ad Interpello n. 522/2019 ha chiarito come “Anche per i compensi degli amministratori che costituiscono redditi assimilati a quello di lavoro dipendente, trovano quindi applicazione, alle condizioni richieste, le disposizioni di cui all’articolo 51 del Tuir, ivi compreso il regime di non imponibilità previsto dal comma 2 del medesimo articolo.” Ma nel medesimo interpello è stato altresì chiarito come “la circostanza che i benefit siano corrisposti agli amministratori che non percepiscono alcun compenso per l’incarico svolto, porta a ritenere che gli stessi assolvano una funzione essenzialmente remunerativa e debbano, pertanto, essere assoggettati a tassazione ai sensi dell’articolo 51, comma 1, del TUIR. Ne consegue che i benefit erogati a tutti i membri del consiglio di amministrazione non possano fruire del regime di esclusione dal reddito“.
Quesito 7 – TFM e data certa
Domanda
Nel caso in cui una società deliberi il trattamento di fine mandato (TFM) a favore di un amministratore, come si determina la validità della “data certa” ai fini della tassazione separata?
Risposta
La data certa costituisce elemento imprescindibile per poter applicare la tassazione separata ex art. 17, comma 1, lett. c) del TUIR al trattamento di fine mandato. Affinché il TFM possa beneficiare della tassazione separata e non ordinaria, è necessario che l’atto che attribuisce il diritto all’indennità – delibera assembleare o clausola statutaria – rechi data certa anteriore all’inizio del rapporto di amministratore.
La certezza della data può risultare da:
- inserimento nello statuto o nell’atto costitutivo (atto pubblico o scrittura autenticata);
- verbale assembleare redatto o autenticato da notaio;
- registrazione presso l’Agenzia delle Entrate;
- invio all’amministratore con raccomandata A/R o PEC;
- deposito presso la CCIAA.
L’assenza di una di queste forme di certezza comporta l’impossibilità di qualificare la somma come TFM con tassazione separata. In tal caso, la corresponsione sarà soggetta a tassazione ordinaria, con ritenuta alla fonte e adempimenti di tipo “dipendente” (LUL, CU, mod. 770).
L’orientamento consolidato (Circolare AdE n. 58/2001 e n. 67/2001) precisa inoltre che la ritenuta d’acconto del 20% deve essere operata al momento della corresponsione del TFM e che la deducibilità in capo alla società dipende dal momento della costituzione del diritto (criterio di competenza ex art. 105, comma 4 TUIR).
Quesito 8 – Contribuzione Gestione Separata e altra attività
Domanda
Come si applica la contribuzione alla Gestione Separata INPS per un amministratore che contemporaneamente esercita un’attività di lavoro autonomo soggetta a diversa forma di previdenza obbligatoria?
Risposta
L’art. 2, comma 26, Legge n. 335/1995 prevede l’obbligo di iscrizione alla Gestione Separata INPS per i soggetti titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, inclusi gli amministratori di società.
Tuttavia, in caso di duplicazione di posizioni assicurative, l’aliquota contributiva si riduce.
Nel 2025, infatti:
- l’aliquota ordinaria è 35,03% (di cui 33% IVS, 0,72% maternità e assegni, 1,31% DIS-COLL);
- per i soggetti iscritti ad altra forma di previdenza obbligatoria o titolari di pensione diretta o indiretta, l’aliquota è ridotta al 24% (Circ. INPS n. 27/2025).
L’amministratore che, ad esempio, è contemporaneamente iscritto ad un albo professionale con cassa autonoma (es. Cassa Forense, Inarcassa, ENPAV), continuerà a versare i contributi principali a tale ente e alla Gestione Separata solo in misura ridotta.
Non è ammesso lo sgravio totale: la ratio della norma è garantire una contribuzione residuale sulla quota di reddito derivante dalla funzione di amministratore, in quanto distinta dall’attività professionale abituale.
Quesito 9 – Doppia contribuzione
Domanda
Un socio di impresa commerciale che svolge attività lavorativa abituale nella stessa società e, contemporaneamente, riveste la carica di amministratore, è soggetto a doppia contribuzione INPS?
Risposta
Sì, nella maggior parte dei casi la doppia contribuzione è dovuta, in applicazione dei principi elaborati dall’INPS e consolidati dalla giurisprudenza di legittimità.
Il socio di società commerciale (es. s.n.c. o s.a.s.) che partecipa personalmente al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza è tenuto all’iscrizione alla Gestione Commercianti (art. 1, Legge n. 613/1966 e art. 49, Legge n. 88/1989). Se, inoltre, il medesimo soggetto riveste anche la carica di amministratore, percependo un compenso deliberato, scatta l’obbligo aggiuntivo di iscrizione alla Gestione Separata in quanto titolare di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa distinto dal lavoro operativo svolto in impresa.
La giurisprudenza (Cass. n. 3240/2010; n. 17076/2011) e la prassi INPS (Circolare n. 104/2001) conferma che il principio di unicità dell’iscrizione non trova applicazione quando le due attività – quella gestoria e quella esecutiva – siano autonomamente configurabili. Solo in presenza di un compenso unitario non distinto e di un’attività non riconducibile alla funzione gestoria, si può sostenere l’unicità della contribuzione, da valutarsi caso per caso.
Quesito 10 – Impresa familiare e convivente di fatto
Domanda
In un’impresa familiare può collaborare, con apporto di lavoro, un convivente di fatto o una persona unita civilmente al titolare?
Risposta
Sì, ma con distinzioni.
L’art. 230-bis c.c. riconosce il diritto del familiare coadiuvante – coniuge, parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo – a partecipare agli utili e agli incrementi dell’impresa familiare. Tuttavia, la norma non menziona i conviventi di fatto o le unioni civili.
Con riferimento a queste ultime, la Legge n. 76/2016 (c.d. Legge Cirinnà) ha equiparato, sul piano civilistico, le unioni civili tra persone dello stesso sesso al matrimonio, con effetti anche in ambito lavoristico e previdenziale: pertanto, il partner unito civilmente può essere considerato a tutti gli effetti familiare coadiuvante ai sensi dell’art. 230-bis c.c., con iscrizione alla Gestione Artigiani o Commercianti ove presti attività abituale e prevalente.
Diverso il caso del convivente di fatto: la convivenza non genera automaticamente il vincolo giuridico necessario per l’impresa familiare, ma può dare luogo a:
– contratto di convivenza ex art. 1, commi 50 ss., Legge 76/2016, che può disciplinare la collaborazione;
– rapporto di lavoro subordinato o autonomo, qualora l’apporto sia economicamente rilevante e continuativo.
In assenza di tali formalità, l’apporto del convivente resta configurabile solo come aiuto familiare di fatto, privo di rilevanza ai fini previdenziali e fiscali.
Quesito 11 – TFM e deducibilità
Domanda
Quali sono le regole di deducibilità del trattamento di fine mandato per la società erogante, in presenza o assenza di atto scritto con data certa?
Risposta
La deducibilità del trattamento di fine mandato (TFM) in capo alla società è strettamente legata alla presenza di un atto scritto, dotato di data certa, che istituisca il diritto dell’amministratore a percepire l’indennità. La disciplina di riferimento si rinviene negli articoli 105, comma 4, e 95, comma 5, del TUIR, che distinguono due ipotesi fondamentali.
Nel primo caso, qualora il TFM risulti formalmente deliberato con atto avente data certa anteriore all’inizio del mandato, la società può procedere alla deduzione per competenza economica, secondo un criterio analogo a quello previsto per il trattamento di fine rapporto dei lavoratori subordinati ex art. 2120 c.c. Ciò significa che l’importo complessivo dell’indennità viene accantonato annualmente nel bilancio d’esercizio, in misura proporzionale alla durata dell’incarico, con la conseguente deduzione del relativo accantonamento in ciascun esercizio. La deduzione per competenza è ammessa soltanto quando il diritto dell’amministratore sia già sorto validamente e in modo opponibile ai terzi, il che richiede appunto la certezza della data anteriore.
Diversamente, se il trattamento di fine mandato non risulta da atto scritto oppure manca la certezza della data anteriore alla nomina, il diritto non può considerarsi giuridicamente perfezionato nel periodo di riferimento. In questo caso, la deducibilità non può avvenire per competenza, ma soltanto nell’esercizio di effettiva erogazione, applicando il principio di cassa “allargato” previsto dall’art. 95, comma 5, del TUIR per i compensi spettanti agli amministratori. La somma erogata, pertanto, viene trattata fiscalmente come un compenso ordinario e non come un trattamento assimilabile al TFR.
È quindi essenziale, ai fini della corretta gestione contabile e fiscale, che la società provveda a formalizzare il TFM mediante una delibera assembleare o una clausola statutaria con data certa anteriore all’inizio del mandato, ottenibile anche attraverso strumenti idonei quali la registrazione presso l’Agenzia delle Entrate, la sottoscrizione autenticata da notaio, l’invio tramite PEC o raccomandata, oppure il deposito presso la Camera di Commercio. In mancanza di tali formalità, la deducibilità sarà posticipata al momento del pagamento effettivo, con conseguente differimento del beneficio fiscale e con il rischio, in sede di accertamento, di un disconoscimento parziale o totale della spesa per carenza dei requisiti di certezza e competenza.
Quesito 12 – Amministratori e welfare
Domanda
È possibile riconoscere un compenso “in natura” o sotto forma di welfare aziendale a favore degli amministratori? Quali sono le conseguenze fiscali e contributive di tale scelta?
Risposta
È possibile, e anzi oggi sempre più frequente, che la società riconosca agli amministratori una parte del compenso sotto forma di benefit o di opere e servizi di welfare aziendale, in luogo o in aggiunta al compenso in denaro. Tale possibilità trova fondamento nell’articolo 51 del TUIR, che disciplina le componenti escluse dall’imponibile fiscale e contributivo dei redditi da lavoro dipendente, e che – per effetto dell’articolo 34 della Legge n. 342/2000 – si estende anche ai redditi assimilati, tra cui rientrano i compensi percepiti dagli amministratori di società.
In concreto, è dunque consentito riconoscere a favore degli amministratori forme di retribuzione in natura o di welfare aziendale, quali ad esempio la previdenza complementare, l’assistenza sanitaria integrativa, l’utilizzo promiscuo dell’autovettura aziendale, i buoni pasto o carburante, le opere e i servizi per finalità educative, ricreative o di assistenza ai familiari, nonché altre utilità che rientrano tra quelle tassativamente previste dall’art. 51, comma 2, TUIR.
Perché tali benefici possano fruire dell’esclusione dall’imponibile, è tuttavia necessario che siano erogati nel rispetto del principio di categoria omogenea. Tale principio, richiamato più volte dall’Agenzia delle Entrate (in particolare nella Circolare n. 28/E del 15 giugno 2016e nella prassi successiva), impone che le opere, i servizi o le somme erogate a titolo di welfare siano messe a disposizione di una pluralità indistinta di soggetti appartenenti alla stessa categoria di lavoratori o di collaboratori, e non individualmente o discrezionalmente. Nel contesto societario, la categoria omogenea può essere costituita non solo da dipendenti, ma anche da soggetti che percepiscono redditi assimilati, come gli amministratori.
Pertanto, se la società adotta un piano di welfare destinato, ad esempio, a “tutti i dirigenti”, “tutti i soggetti con funzioni direttive” oppure “tutti coloro che percepiscono compensi assimilati al lavoro dipendente”, gli amministratori possono legittimamente rientrare nella categoria beneficiaria, a condizione che l’estensione sia espressamente prevista dal regolamento o dalla delibera che istituisce il piano. In tal modo, i benefit riconosciuti agli amministratori godranno della medesima disciplina agevolata prevista per i dipendenti, sia ai fini fiscali (esclusione dall’imponibile entro i limiti di legge) sia ai fini previdenziali (esclusione dalla contribuzione alla Gestione Separata INPS).
Diversamente, se i benefit vengono concessi individualmente o discrezionalmente ad un singolo amministratore, senza un piano o una regolamentazione che individui una categoria di riferimento, essi assumono natura di compenso in denaro, con conseguente tassazione ordinaria e obbligo contributivo.
Quesito 13 – La quota societaria: cessione o successione
Domanda
La quota societaria e quindi lo status di socio è ereditabile?
Risposta
In base all’art. 2284 c.c. in caso di morte di un socio, salvo patto contrario, la società si scioglie nei confronti di quel socio e gli altri devono liquidare la sua quota agli eredi. Tuttavia, l’atto costitutivo può prevedere che:
- la società continui con gli eredi che subentrano (successione mortis causa);
- la società prosegua con gli altri soci, liquidando gli eredi.
In pratica
→ Gli eredi non diventano automaticamente soci: serve il consenso degli altri soci (art. 2284, comma 2, c.c.).
→ Il Registro delle imprese viene aggiornato solo dopo che gli altri soci hanno deliberato la prosecuzione con gli eredi o dopo la liquidazione della quota.
La pratica viene gestita con una comunicazione di variazione soci tramite modello S2 (per le Camere di Commercio) corredata da:
- dichiarazione di successione e accettazione eredità;
- verbale di decisione dei soci o atto notarile di cessione/riconoscimento;
- documento d’identità e codice fiscale degli eredi subentranti.
Quesito 14 – Cessione quote di s.r.l.
Domanda
Come si effettua una corretta cessione quote di una s.r.l. anche da un punto di vista fiscale?
Risposta
La cessione di quote di una S.r.l. è disciplinata, sotto il profilo civilistico, dagli artt. 2469 e ss. del Codice Civile.
La quota di partecipazione può essere liberamente trasferita, salvo diversa previsione dell’atto costitutivo (es. clausole di prelazione o gradimento). L’atto di cessione deve essere redatto per atto pubblico o scrittura privata autenticata da notaio o da altro soggetto abilitato (art. 36, D.L. 112/2008).
L’efficacia verso la società si perfeziona con l’iscrizione nel Registro delle Imprese (art. 2470 c.c.), a cura del notaio/soggetto abilitato autenticante, che provvede al deposito telematico della dichiarazione di trasferimento.
Sotto il profilo fiscale, la cessione di quote genera una plusvalenza o minusvalenza per il cedente. Per le persone fisiche non imprenditori, i redditi derivanti dalla cessione di partecipazioni qualificate o non qualificate sono tassati come redditi di capitale o diversi ai sensi dell’art. 67, comma 1, lett. c) e c-bis) e art. 68 del TUIR, con imposta sostitutiva del 26% (D.L. n. 66/2014). Per i soggetti IRES, la plusvalenza concorre al reddito d’impresa secondo l’art. 86 del TUIR, con possibile esenzione parziale in regime di participation exemption (art. 87 TUIR), se ricorrono i requisiti di legge.
Eventuali imposte di registro sono dovute in misura fissa (€ 200) ex art. 11 Tariffa D.P.R. n. 131/1986.
Quesito 15 – La società s.r.l. unipersonale
Domanda
Quali sono a vostro parere i vantaggi pratici e le criticità di una società s.r.l. unipersonale?
Risposta
La s.r.l. unipersonale, disciplinata dagli artt. 2462 e ss. c.c., rappresenta una variante della società a responsabilità limitata in cui il capitale sociale è detenuto da un unico socio, persona fisica o giuridica.
Tra i principali vantaggi pratici figura la limitazione della responsabilità al capitale conferito, analogamente alla s.r.l. pluripersonale, purché sia integralmente versato e risulti iscritta nel Registro delle Imprese l’unicità della partecipazione (art. 2462, comma 2 c.c.). Ciò consente all’imprenditore individuale di beneficiare di una separazione patrimoniale più netta rispetto alla ditta individuale, favorendo la pianificazione fiscale e societaria, anche ai fini di accesso al credito e di tutela del patrimonio personale.
Sul piano fiscale, la s.r.l. unipersonale è soggetto IRES (art. 73 TUIR) e IRAP, consentendo una gestione più strutturata della remunerazione del socio unico tramite dividendi o compensi da amministratore, con possibilità di ottimizzazione del carico fiscale complessivo.
Tra le criticità, si segnalano il rischio di “confusione patrimoniale” se non è rispettata la separazione tra socio e società (art. 2462, comma 2 c.c.) quindi i beni personali e patrimoniali potrebbero coincidere e quindi esporre il socio all’estensione della responsabilità ai suoi beni personali nei confronti dei creditori oppure anche la qualificazione di “società strumentale” con quindi responsabilità illimitata del socio ex art. 2497 c.c.
Quesito 16 – L’atto costitutivo nelle s.r.l.
Domanda
Quali devono essere gli elementi presenti nell’atto costitutivo di una s.r.l.?
Risposta
L’art. 2463, comma 2, c.c. stabilisce i contenuti necessari dell’atto costitutivo/statuto di una S.r.l.; in mancanza, l’atto non è iscrivibile al Registro delle imprese (art. 2330, in combinato con 2463-bis per la S.r.l.s.).
Elementi obbligatori sono i dati identificativi dei soci, la denominazione sociale e indicazione di “S.r.l.” e il Comune in cui è posta la sede legale. Molto importante è poi la presenza di una descrizione chiara, lecita e determinata delle attività che la società intende esercitare e quindi dell’oggetto sociale.
Vanno poi inseriti i dati relativi al Capitale sociale ed eventuale natura, valore, modalità e tempi di liberazione dei conferimenti dei soci (per S.r.l. unipersonali è necessario il versamento integrale del capitale sociale).
Sono poi essenziali anche le norme sulla ripartizione degli utili, indicazioni sul sistema di amministrazione e rappresentanza, i soggetti incaricati del controllo (se previsto), la durata della società (se determinata) e modalità di scioglimento.
L’atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico notarile o, per le S.r.l. online, con atto digitale a firma elettronica qualificata “atto costitutivo digitale” ex art. 2 D.Lgs. n. 183/2021. La S.r.l., a differenza della S.p.A., è caratterizzata da un’ampia flessibilità statutaria (art. 2463 c.c. e ss.), che consente di modellare la governance e i rapporti interni secondo le esigenze dei soci.
Alcune aree di libertà discrezionale sono quelle per esempio relative alla governance e decisioni dei soci (modalità di convocazione, quorum e forma delle decisioni e possibilità di attribuire poteri gestionali diretti ai soci su determinate operazioni) oppure in materia di scelta dell’amministrazione (amministratore unico, più amministratori disgiunti/congiunti o consiglio di amministrazione, durata in carica, cause di cessazione e modalità di sostituzione e anche delega di poteri e limiti).
Si ricorda che solo con l’iscrizione la società acquista la personalità giuridica (art. 2463, comma 3 c.c.).
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