CIRCOLARE MONOGRAFICA
DI EMANUELE MAESTRI | 17 NOVEMBRE 2025
Il punto sull’istituto, anche alla luce della più recente giurisprudenza
La corretta gestione del patto di non concorrenza – la cui stipula, peraltro, non è affatto obbligatoria – postula la piena conoscenza delle condizioni previste dalla norma, pena la nullità della relativa clausola. Di seguito il punto sull’istituto, anche alla luce della più recente giurisprudenza (C. App. Roma 25 ottobre 2025 ). Ovviamente, limiteremo la nostra analisi al solo ambito del lavoro subordinato privato.
Obbligo di fedeltà
L’articolo 2105 del Codice civile – per la generalità dei casi – dispone che il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, ovvero farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.
Quindi, finché il rapporto di lavoro subordinato è regolarmente in atto, non occorre scrivere nulla di particolare e vale pienamente la norma civilistica.
Invece, se si vuole limitare l’attività del dipendente – alle condizioni che si diranno di seguito – per il periodo successivo alla cessazionedel contratto di lavoro, occorre “scrivere”, pattuire le clausole e, quindi, firmare il patto di non concorrenza.
Nozione
Come anticipato appena sopra, datore e dipendente possono pattuire che, una volta concluso il rapporto di lavoro in corso, il dipendente non potrà svolgere – in un dato territorio, per un certo periodo di tempo e con riferimento a mansioni prestabilite (nel senso di: preventivamente individuate), a fronte dell’erogazione di una ben precisa somma (corrispettivo del patto) – le attività che vengono individuate dalle parti stesse.
Il patto di non concorrenza può essere stipulato:
- all’atto della costituzione del contratto di lavoro;
- mentre il rapporto di lavoro è in corso di svolgimento;
- in prossimità della sua cessazione, ovvero anche dopo tale momento.
La stipulazione del patto di non concorrenza – che non è affatto obbligatoria – è rimessa alla libera volontà del datore di lavoro e del dipendente. In presenza di tale esplicita volontà, da esternarsi per iscritto, occorre rispettare i requisiti stabiliti dal legislatore.
In pratica, il patto di non concorrenza è un accordo volontario a prestazioni corrispettive, nel quale:
- il lavoratore si impegna, dopo l’avvenuta cessazione dell’attuale contratto di lavoro, a non svolgere alcune mansioni per un certo periodo di tempo in un territorio ben individuato;
- il datore si impegna a erogare il corrispettivo previsto nell’accordo.
Va peraltro evidenziato che – se si tratta di rapporto di lavoro subordinato sportivo – il contratto non può contenere clausole di non concorrenza o limitative della libertà professionale dello sportivo per il periodo successivo alla cessazione del contratto stesso né può essere integrato, durante lo svolgimento del rapporto, con tali pattuizioni (art. 26, co. 6, del D.Lgs. 28 febbraio 2021, n. 36).
Forma
L’articolo 2125 del Codice civile dispone espressamente che il patto di non concorrenza è nullo se non risulta da atto scritto (esattamente come il patto di prova, anch’esso non obbligatorio), ovviamente firmato da datore e dipendente. Inoltre, poiché il patto di non concorrenza non si configura quale clausola vessatoria, non richiede che sia stipulato con apposito atto separato ma, al contrario, può anche essere contenuto nel contratto di lavoro vero e proprio, firmato dal lavoratore per accettazione di tutte le clausole in esso contenute.
Durata
L’articolo 2125 del Codice civile prevede espressamente la durata massima del patto qui in esame – che può quindi essere disciplinata diversamente per opera delle parti solo riducendone la durata – nelle seguenti misure:
- dirigenti: massimo 5 anni;
- quadri, impiegati e operai: massimo 3 anni.
Nel caso in cui le parti abbiano ignorato tale disposizione, e abbiano quindi stipulato un patto che preveda una durata maggiore, la norma stabilisce espressamente che essa si riduce nella misura suindicata.
Oggetto
L’articolo 2125 del Codice civile, tra l’altro, dispone che il patto di non concorrenza è nullo nel caso in cui il vincolo non sia contenuto entro determinati limiti di “oggetto”. Con tale termine si identifica l’attività (o le attività) il cui svolgimento viene di fatto legalmente inibito al lavoratore per la durata del patto: ossia in pratica si individuano le mansioni che non potranno essere svolte per un certo periodo di tempo.
Ovviamente anche tale clausola deve risultare in forma scritta, a pena di nullità.
Al riguardo, la giurisprudenza ha affermato quanto segue:
- non è affatto necessario che il patto si limiti a vietare unicamente le attività svolte dal dipendente nel corso del rapporto di lavoro: esso può quindi individuare anche mansioni che non sono state disimpegnate presso il precedente datore di lavoro;
- l’oggetto del patto può essere costituito indifferentemente dal divieto di svolgere una determinata attività tanto in forma subordinata quanto parasubordinata o autonoma, ivi inclusa la consulenza in ben specificati campi o settori;
- l’ampiezza del divieto, non predeterminata a priori dalla norma, non può tuttavia spingersi a comprimere e limitare totalmente le possibilità del lavoratore di valorizzare la propria professionalità al fine di procurarsi un reddito adeguato.
La limitazione concernente l’oggetto può riguardare anche il divieto di svolgere la propria attività a favore di un predeterminato soggetto, come nel caso di un’azienda – specificatamente individuata (ossia indicata con il nome o la ragione sociale) – che operi in diretta concorrenza con l’attuale datore di lavoro.
Territorio
La norma codicistica precisa poi che il patto di non concorrenza è nullo se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti “di luogo”. Infatti, mentre è assolutamente necessario che le parti individuino espressamente le zone (che possono essere stabilite con riferimento a una città, una provincia, una regione e così via) all’interno delle quali l’attività del lavoratore – dopo che sia venuto a cessare il rapporto di lavoro in corso – non può essere svolta (per un determinato periodo di tempo, ai sensi di quanto specificato sopra), va anche precisato che tale vincolo non può essere esteso oltre i principi di ragionevolezza.
Infatti, posto che all’ex dipendente deve essere possibile mettere a frutto (seppure con le limitazioni previste) la propria professionalità, il patto è nullo nei seguenti casi:
- quando la limitazione territoriale non sia stata affatto stabilita;
- quando essa, al contrario, si riveli troppo estesa.
A tale proposito, parte della giurisprudenza – a fronte di adeguate contropartite – ha ritenuto legittimo il divieto, per il lavoratore, di svolgere la propria attività con riguardo all’intero territorio europeo; altri giudici hanno invece ritenuto eccessiva una limitazione territoriale così ampia (e, in senso conforme, si è espressa la sentenza riportata più avanti).
È nullo il patto di non concorrenza nel caso in cui il suo ambito territoriale di efficacia sia assoggettato a mutamento in base a variazioni unilateralmente disposte dal datore (Trib. Vicenza 22 marzo 2022).
Corrispettivo
Da ultimo, la norma di riferimento stabilisce che il patto di non concorrenza è nullo se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro.
Fermo dunque l’obbligo di prevedere un adeguato compenso (la cui entità non è affatto dal Codice civile, neppure nella sua misura minima), i problemi sorgono con riguardo alla determinazione di tale corrispettivo, in particolare con riferimento alla sua “congruità” rispetto alla durata del vincolo, all’ampiezza dell’oggetto (ossia alle attività vietate) e all’estensione dell’area geografica entro cui il dipendente non può svolgere attività in concorrenza con quella dell’ex datore di lavoro.
Su questa questione la giurisprudenza si è espressa più volte, affermando la nullità dei patti in cui sia stato previsto un corrispettivo meramente simbolico o che, comunque, risulti palesemente inadeguato rispetto al vincolo imposto al dipendente, nonché dei patti nei quali sia stabilito che, in caso di mutamento delle mansioni assegnate al lavoratore, il datore non è più tenuto a pagare il compenso mentre invece il dipendente resta soggetto alle relative limitazioni per un intervallo temporale di 12 mesi (Cass. ordinanza 19 aprile 2024, n. 10679).
In pratica, il corrispettivo è legato all’effettiva portata delle limitazioni delle quali il lavoratore si è volontariamente fatto carico: il suo importo quindi deve quindi necessariamente essere legato, in misura direttamente proporzionale alla:
- retribuzione che era normalmente percepita dal lavoratore, e quindi alle mansioni da questi disimpegnate;
- estensione territoriale del vincolo: per esempio ben diverso è limitare la futura possibilità attività alla sola provincia di Varese, altra cosa è estendere tale vincolo a tutta la Regione Lombardia;
- durata temporale del vincolo: la situazione è assai diversa, per esempio, nel caso di un vincolo con durata di 2 mesi rispetto a quello avente durata triennale;
- ampiezza dell’oggetto: il compenso dovrà essere tanto più elevato quanto maggiore sarà la concreta compressione delle residue possibili attività lavorative in capo al dipendente.
Posto che non è ammissibile che il corrispettivo, per quanto elevato, preveda il divieto di svolgere pressoché qualsiasi attività lavorativa, è invece possibile che esso consista non in una somma di denaro ma nel godimento di un determinato bene (per esempio un appartamento che viene dato in uso al lavoratore).
Per quanto concerne le modalità di pagamento del corrispettivo, sono possibili le seguenti soluzioni:
- con cadenza mensile mentre il rapporto di lavoro è in corso di svolgimento;
- con il pagamento di una somma una tantum all’atto della cessazione del contratto di lavoro;
- ratealmente, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, per esempio in 12 o 24 mesi;
- con il pagamento di una somma una tantum dell’intera somma ma solo allo scadere del vincolo;
- secondo una combinazione di due o più delle modalità precedentemente indicate.
Violazione del patto
Nel caso in cui il datore di lavoro (o meglio: l’ex datore di lavoro) accerti – anche tramite un investigatore privato appositamente incaricato – che il dipendente, con il quale il patto è stato validamente concluso ed è regolarmente in essere, viola i propri doveri, egli può adire il giudice con ricorso d’urgenza ai sensi di quanto previsto dall’articolo 700 del codice di procedura civile, dimostrando il c.d. periculum in mora, chiedendo quindi al magistrato di emettere un provvedimento con il quale si ordina al dipendente di astenersi dal proseguire nell’attività in concorrenza.
Secondo la giurisprudenza, è possibile che – sin dall’origine, ossia dal momento della stipulazione – nel patto di non concorrenza sia invidiata una penale, consistente in una somma di denaro prestabilita per la violazione degli accordi in materia di non concorrenza.
Corte Appello di Roma, sentenza 25 ottobre 2025
Veniamo ora alle ultime novità giurisprudenziali, occupandoci della sentenza con la quale il Tribunale di Roma, il 31 ottobre 2024, ha deciso una vertenza riguardante sia il licenziamento di un dipendente che la validità del patto di non concorrenza con lui stipulato.
Nel caso di specie, il lavoratore era stato amministratore unico di una S.r.l. operante nella “realizzazione di infrastrutture di pubblica utilità per la posa di: cavi per le telecomunicazioni, condotte per il gas e l’acqua, linee per il trasporto dell’elettricità con utilizzo di tecnologia t.o.c. – trivellazioni-orizzontali-controllate“. Egli era stato assunto a tempo indeterminato dal 3 maggio 2021, con inquadramento al livello 5 CCNL Metalmeccanici Industria, con orario di 40 ore settimanali, retribuzione annua lorda pari a euro 54.000, e con patto di non concorrenza. Il giudice di primo grado, tuttavia, rigettava le sue domande e lo condannava a pagare le spese di lite.
Il lavoratore ricorre in appello davanti alla Corte territoriale della Capitale lamentando, per quanto di specifico interesse, per eccessiva ampiezza dell’oggetto e delle limitazioni impostegli, estensione territoriale sproporzionata (Italia ed Europa intera), inadeguatezza del corrispettivo previsto.
Nel caso in esame, la clausola sottoscritta tra le parti prevedeva che “… al fine di tutelare i legittimi interessi commerciali della Società, durante il lavoro del dipendente e per 3 anni dopo la risoluzione del presente contratto, indipendentemente dai motivi della risoluzione, il dipendente si impegna a rispettare i seguenti obblighi:
- non fare accordi, formali o informali, scritti o orali, con nessuno dei concorrenti passati, attuali o futuri della Società attivi nel campo della perforazione orizzontale teleguidata, creazione, realizzazione e manutenzione di linee di distribuzione ad alta e/o a bassa tensione, servizio globale di reti di distribuzione elettrica, cabine di conversione primarie e secondarie, illuminazione pubblica, impianti elettrici, linee di distribuzione di acqua e fognature, ascensori per l’acqua e sistemi di depurazione dell’acqua, servizio globale di reti idriche e fognarie, energie rinnovabili (ma, per quanto riguarda il settore delle energie rinnovabili, solo con riferimento alla fornitura di attività di costruzione e/o manutenzione, tra cui, tra l’altro, impiantistica, interconnessione elettrica, manutenzione elettrica, sviluppo e costruzione di linee elettriche a favore di clienti terzi; non sottoscrivere o detenere azioni o obbligazioni in tali società o imprese in concorrenza con la Società;
- non sollecitare – per proprio conto o in collaborazione o per conto di qualsiasi altra persona, impresa o società – qualsiasi altra persona, impresa o società (sia mediante la fornitura di nomi o esprimendo opinioni sull’idoneità o altro) per sollecitare qualsiasi dipendente, direttore, funzionario della Società;
- non sollecitare alcun cliente effettivo e/o potenziale, né interferire nei rapporti della Società con qualsiasi cliente effettivo e/o potenziale nel settore commerciale;
- non avere – né per proprio conto né in collaborazione o per conto di altre persone, società o società – rapporti commerciali direttamente o indirettamente con qualsiasi cliente effettivo e/o potenziale della Società nel settore commerciale;
- non persuadere alcun fornitore a cessare di fare affari o a ridurre materialmente la propria attività con la Società;
- nel caso in cui il dipendente si dovesse candidare per un impiego, o allo stesso sia offerto un lavoro, o abbia negoziati in relazione a un potenziale impiego, o partecipi in altro modo a qualsiasi processo di assunzione con un altro datore di lavoro, egli si impegna ad informare tale altro potenziale datore di lavoro dell’esistenza di questo patto di non concorrenza“.
L’estensione geografica di questo patto di non concorrenza era il territorio dell’Italia e dell’Europa.
In base al medesimo accordo, il dipendente, per tutta la durata del rapporto, avrebbe ricevuto un importo annuo lordo totale di 15.000 euro, da versarsi in 13 rate mensili di pari importo, a decorrere dall’avvio del rapporto e per i 13 mesi successivi. Se il versamento delle suddette rate mensili non fosse stato completato alla data di cessazione del rapporto, la Società avrebbe pagato, entro 60 giorni dalla cessazione (indipendentemente dai motivi di cessazione), la parte del corrispettivo di non concorrenza ancora dovuta (cioè la differenza tra il corrispettivo di non concorrenza e le suddette rate mensili già ricevute dal dipendente alla data di cessazione del rapporto di lavoro).
Ad avviso dei giudici dell’appello, l’art. 2125 cod. civ. richiede – senza quantificarli espressamente – che siano determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo del patto. Essi devono ricavarsi dalla ratio della previsione di nullità, palesemente intesa ad assicurare al prestatore un margine di attività idoneo a procurargli un guadagno adeguato alle esigenze di vita proprie e della famiglia. In relazione a tale termine di riferimento deve essere valutata l’estensione del patto ad ogni attività esplicabile in un dato settore merceologico, e in questa prospettiva assumono rilievo le mansioni svolte in concreto dal lavoratore.
Gli effetti del patto limitativo sulla capacità di guadagno del lavoratore dipendono infatti dall’estensione obbiettiva delle attività inibite e dal rapporto tra queste e le mansioni da lui svolte.
Infatti, le capacità di guadagno del lavoratore sono legate principalmente al bagaglio professionale acquisito e solo accessoriamente ad attitudini e potenzialità generiche e non ancora espresse, difficilmente computabili nella valutazione delle possibilità di accesso all’occupazione. Diverso è l’ordine di grandezza del sacrificio insito nella temporanea rinuncia rispettivamente ad attività rientranti nell’ambito delle competenze già esplicate e ad attività ad esse estranee: la prima ha per oggetto attività concretamente e attualmente esercitabili; la seconda attività solo virtuali, subordinate ad un cambiamento più o meno radicale nell’orientamento professionale.
Le attività inibite devono essere, quindi, valutate in rapporto alla professionalità acquisita dal lavoratore; il limite è tanto più intenso quanto più prossime alle mansioni svolte sono quelle vietate.
La valutazione dell’ampiezza del vincolo presuppone, quindi, la determinazione della misura in cui le competenze professionali sono associate a mansioni tipiche del settore: il vincolo è tanto più esteso quanto più specializzate, legate alla specifica attività del tipo di azienda, sono le mansioni espletate dal lavoratore.
Pertanto, va ravvisata una violazione dei limiti legali di oggetto ogni qualvolta il datore pretenda di impedire di fatto, sostanzialmente, al lavoratore di svolgere qualunque attività lavorativa riconducibile al proprio background professionale: se la ratio della previsione di nullità del patto risiede nella necessità di salvaguardare un margine di attività sufficiente per il soddisfacimento delle esigenze di vita, tale attività non può non ricollegarsi al mestiere nel quale sono state maturate la professionalità, l’esperienza e i titoli dai quali dipende l’accesso all’occupazione.
Dalla premessa consegue, infatti, la tendenziale irrilevanza della inclusione, nell’oggetto del divieto, di attività estranee al patrimonio professionale del lavoratore, non già l’invalidità del patto che tale inclusione abbia operato. Consegue, inoltre, che il divieto può eccedere la specifica attività che costituiva l’oggetto della prestazione lavorativa, sempreché rimangano al dipendente sufficienti prospettive di lavoro.
Alla luce di tali considerazioni – posto che il patto aveva totalmente inibito la professionalità del lavoratore, vietandogli di svolgere qualsivoglia attività (di lavoro autonomo o subordinato) inerente alle sue competenze, per di più con riguardo a tutta l’Europa – il patto de quo è stato dichiarato nullo.
Riferimenti normativi:
- Codice civile, artt. 2105 e 2125
- D.Lgs. 28 febbraio 2021, n. 36, art. 26
- Corte d’Appello di Roma, Sentenza 25 ottobre 2025
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