3° Contenuto Riservato: Frontalieri con partecipazioni in Sagl: il nuovo fronte aperto dall’Amministrazione finanziaria

CIRCOLARE MONOGRAFICA

La crescente attenzione del Fisco verso i frontalieri coinvolti in strutture societarie svizzere

DI MATTIA MERATI | 3 DICEMBRE 2025

Questo contributo esamina le recenti contestazioni della Guardia di Finanza, avallate dall’Agenzia delle Entrate, nei confronti dei lavoratori frontalieri titolari di partecipazioni rilevanti in società svizzere (tipicamente Sagl) con sede nel Canton Ticino. L’oggetto della disputa è la compresenza dei ruoli di socio e dipendente nella stessa società, ritenuta incompatibile con il vincolo di subordinazione. Tale interpretazione comporta la riqualificazione del reddito da “lavoro dipendente” a “reddito assimilato”, con significative conseguenze sull’applicazione dell’Accordo sulla fiscalità dei frontalieri.

Introduzione

Negli ultimi anni ha preso piede una nuova prassi accertativa italiana, avviata dalla Guardia di Finanza (GdF) e dall’Agenzia delle Entrate, che ha aperto un fronte di discussione particolarmente delicato: la riqualificazione del reddito percepito dai frontalieri, titolari di una società a garanzia limitata (Sagl) in Svizzera, da reddito di lavoro dipendente (ai sensi dell’art. 49, comma 1, TUIR) a reddito assimilato (ai sensi dell’art. 50, comma 1, lett. c-bis, TUIR).

Si tratta di una questione che può avere conseguenze rilevanti, sia in termini di imposte che sanzioni.

Il regime fiscale dei vecchi frontalieri: inquadramento

La disciplina del frontaliero trova il suo primo inquadramento a livello tributario internazionale nell’Accordo sulla fiscalità dei frontalieri, siglato tra Italia e Svizzera nel 1974 (“Accordo”).

Sono considerati lavoratori frontalieri i soggetti che, pur conservando la residenza fiscale in Italia, svolgono in modo continuativo un’attività di lavoro subordinato oltre il confine nazionale, in zone limitrofe. Tale condizione implica il rientro regolare presso il domicilio italiano e la residenza in Comuni situati entro una fascia di 20 chilometri dal confine con i Cantoni svizzeri Ticino, Grigioni e Vallese, unici territori nei quali è peraltro ammessa l’attività subordinata al fine di beneficiare delle agevolazioni previste dall’Accordo.

Ai sensi dell’art. 1 dell’Accordo, “I salari, gli stipendi e gli altri elementi facenti parte della rimunerazione che un lavoratore frontaliero riceve in corrispettivo di un’attività dipendente sono imponibili soltanto nello Stato in cui tale attività è svolta”. L’applicazione di tale principio è sancita anche nell’art. 15, paragrafo 4, della Convenzione contro le doppie imposizioni Italia-Svizzera, firmata a Roma il 9 marzo 1976 (“Convenzione”).

Si tratta di un’imposizione esclusiva in Svizzera, tramite prelievo dell’imposta alla fonte, senza alcun obbligo dichiarativo in Italia relativamente al reddito da attività dipendente percepito. A fronte di tale esclusività, i Cantoni di frontiera (Ticino, Grigioni e Vallese), riversano annualmente ai Comuni di frontiera italiani, una percentuale di quanto prelevato, a titolo di ristoro.

L’Accordo non è ad oggi più in vigore, essendo stato sostituito da un nuovo Accordo, siglato tra Italia e Svizzera nel 2020 e in vigore dal 1° gennaio 2024. Per i c.d. “nuovi” frontalieri, la tassazione esclusiva in Svizzera non è più prevista.

Considerato che le attuali contestazioni attengono a periodi fino al 2023, il contributo si concentrerà sulla categoria dei c.d. vecchi frontalieri, ossia, in generale, dei lavoratori frontalieri residenti in Italia che alla data di entrata in vigore del nuovo Accordo (17 luglio 2023) svolgevano già un’attività di lavoro dipendente nell’area di frontiera in Svizzera per un datore di lavoro ivi residente.

La fattispecie oggetto di accertamento

Secondo la ricostruzione della GdF, alcuni lavoratori frontalieri presentano una situazione peculiare: da un lato, detengono quote rilevanti – spesso di maggioranza – in una società a garanzia limitata (Sagl) con sede in Svizzera (tipicamente nel Ticino); dall’altro, risultano formalmente assunti come dipendenti della stessa società svizzera. Per le Autorità accertative italiane, questa combinazione costituirebbe un’operazione artificiosa, finalizzata a ottenere un vantaggio fiscale. Tale vantaggio consisterebbe, da un lato, nell’applicazione dell’aliquota (svizzera) ridotta prevista per i frontalieri, dall’altro, nell’esonero dall’obbligo di presentare la dichiarazione dei redditi in Italia, con conseguente esclusione da imposizione italiana del reddito.

Il punto centrale della contestazione riguarda la presunta assenza di eterodirezione, requisito essenziale per qualificare il reddito come lavoro dipendente ai sensi dell’art. 49, comma 1, TUIR. Secondo la GdF e l’Agenzia delle Entrate, tale mancanza impedirebbe l’applicazione dell’Accordo sui frontalieri e dell’art. 15 della Convenzione.

In estrema sintesi, il percorso argomentativo seguito dagli organi accertatori è il seguente:

  1. la Convenzione non definisce la nozione di “lavoro dipendente”;
  2. in assenza di tale definizione, l’art. 3, par. 2, della Convenzione rinvia alle norme interne dello Stato che applica la Convenzione;
  3. per l’Italia, per qualificarsi come “lavoro dipendente”, l’art. 49, comma 1, TUIR richiede che il rapporto si svolga “alle dipendenze e sotto la direzione di altri”.

Ne deriva, secondo questa impostazione, che il socio/lavoratore non può essere considerato subordinato in quanto, in virtù della quota rilevante detenuta, verrebbe a mancare il requisito della dipendenza/eterodirezione. Sulla base di questa presunzione, la GdF e l’Agenzia riqualificano il reddito da lavoro dipendente in reddito assimilato a quello da lavoro dipendente (art. 50, comma 1, lett. c-bis, TUIR).

Potenziali conseguenze

La riqualificazione fiscale comporterebbe l’inapplicabilità sia della Convenzione sia dell’Accordo, con conseguente assoggettamento del reddito alla tassazione progressiva italiana (aliquota fino al 43%). Ciò rappresenta un aggravio economico significativo rispetto all’imposizione alla fonte in Svizzera, generalmente (ben) più contenuta.

Inoltre, la riqualificazione genera un rischio di doppia imposizione che – pur teoricamente eliminabile tramite il credito d’imposta previsto dall’art. 24 della Convenzione e e dall’art. 165 TUIR – è stato escluso dalle prime pronunce giurisprudenziali, le quali negano il beneficio nei casi di omessa dichiarazione del reddito estero (cfr., CGT Como 1° grado, n. 236 del 16 luglio 2024).

A questo si aggiungono le sanzioni per omessa dichiarazione (art. 1, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471): per le violazioni commesse fino al 1° settembre 2024, la misura oscilla tra il 120% e il 240% dell’imposta dovuta; per quelle successive, a seguito della riforma introdotta dal D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87, si applica il 120%.

In alcune fattispecie, viene inoltre contestata l’omessa compilazione del quadro RW, relativo all’eventuale conto corrente detenuto in Svizzera sul quale viene accreditato lo stipendio.

Alcune considerazioni sulla prassi accertativa

Numerosi sono gli aspetti che sollevano perplessità nella ricostruzione operata dagli organi accertatori. Di seguito si riportano alcune considerazioni generali, non potendo – per ragioni di sintesi – approfondire nel dettaglio tutte le questioni rilevanti.

A quale Stato deve essere demandata la qualificazione?

Poiché né la Convenzione, né l’Accordo definiscono il concetto di “lavoro dipendente”, occorre fare riferimento al Commentario OCSE: senza poter qui entrare in dettaglio, basti notare che l’impostazione prevalente prevede che la qualificazione debba basarsi sulle norme nazionali dello Stato che applica il Trattato, individuato come lo Stato in cui le attività sono svolte (ie. lo Stato di lavoro).

Applicando tali principi, è immediato riconoscere come la qualificazione della natura del reddito spetti alla Svizzera, in quanto Stato della fonte, oltre che Stato di svolgimento dell’attività lavorativa.

Una conferma pratica si rinviene nel fatto che, per gli anni contestati, i tre Cantoni di frontiera (Ticino, Grigioni e Vallese) hanno regolarmente versato i ristorni ai Comuni italiani sulla base della qualificazione del reddito come lavoro dipendente operata dalla Svizzera.

In alcuni verbali, la GdF, non trovando appiglio nella Convenzione, si rifà alla normativa previdenziale per individuare una definizione di “lavoratore dipendente”, citando il Regolamento UE n. 883/2004 sui regimi di sicurezza sociale.

Il Regolamento, applicabile anche alla Svizzera dal 2012, stabilisce che chi esercita attività in più Stati è soggetto alla legislazione dello Stato in cui svolge l’attività subordinata. Ne deriva che, anche sotto il profilo previdenziale, prevale la normativa svizzera sui contratti di lavoro.

È un’operazione “artificiosa” al solo fine di ottenere un vantaggio fiscale?

Sebbene, in linea di principio, non sia escluso che lo Stato di residenza possa mettere in discussione l’applicazione delle norme convenzionali quando vi sia una costruzione “artificiosa/abusiva”, il presupposto dovrebbe comunque individuarsi quando lo scopo principale di un’operazione è ottenere un vantaggio fiscale contrario all’oggetto e alla finalità della Convenzione.

In tal caso, la contestazione dovrebbe effettivamente dimostrare che la costituzione della società svizzera da parte dei soci/frontalieri aveva finalità esclusivamente fiscali. A questo riguardo, senza pretesa di esaustività, basti solo qui ricordare che la stessa normativa svizzera impone la costituzione di società per esercitare determinate professioni.

Peraltro, la presenza di una struttura organizzativa aziendale, rinvenibile, ad esempio, nella presenza di altri dipendenti o collaboratori, varrebbe a dimostrare l’assenza di alcuna costruzione puramente artificiosa.

È possibile la “convivenza” tra la qualifica di socio/amministratore e dipendente?

Il tema merita certamente un approfondimento specifico, data la complessità della materia. Qui si propone una sintesi sul possibile “cumulo” dei ruoli in ambiti differenti.

Sul versante svizzero, nonostante alcuni contrasti giurisprudenziali (per lo più relativi a casi limite), la normativa sul lavoro ammette in generale la possibilità di un rapporto di lavoro dipendente tra socio-gerente e la propria Sagl. Dal punto di vista fiscale, la prassi elvetica – in particolare quella ticinese – qualifica soci e gerenti di Sagl come lavoratori dipendenti, basandosi sul principio di separazione giuridica tra persona fisica e società di capitali. In presenza di un contratto scritto, il rapporto è riconosciuto e tassato come lavoro subordinato.

Peraltro, l’art. 814 del Codice delle Obbligazioni svizzero stabilisce che, in caso di costituzione di una Sagl da parte di soggetti non svizzeri, la società debba essere rappresentata da almeno un gerente (o direttore) con domicilio in Svizzera, dotato di competenze tecniche adeguate. Si tratta quindi di un ruolo sostanziale, non meramente formale, come talvolta erroneamente ritenuto in alcuni verbali della GdF.

Sul versante italiano, la normativa previdenziale e la giurisprudenza offrono spunti interessanti. Diverse pronunce della Corte di Cassazione hanno riconosciuto la legittimità della coesistenza dei ruoli di socio, amministratore e dipendente nella stessa società (cfr., inter alia, Cass., sez. lav., ord. del 23 giugno 2020, n. 12280; Cass., sez. lavoro, sent. n. 24439 del 10 agosto 2023). Ancora, l’ordinanza del 28 aprile 2021, n. 11161 chiarisce che “la qualità di socio, anche maggioritario di una società di capitali, non è di per sé di ostacolo alla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra socio e società, allorché possa in concreto ravvisarsi il vincolo di subordinazione, almeno potenziale”.

Strategie operative

Sebbene non manchino importanti argomentazioni a supporto di una solida tesi difensiva, non va sottovalutato che parte della giurisprudenza di merito sembrerebbe aver accolto, pur in primo grado, la tesi erariale (cfr. CGT Como 1° grado, n. 236 del 16 luglio 2024, n. 312 del 19 novembre 2024). Per i frontalieri che si trovino in situazioni analoghe, risulta quindi opportuno predisporre preventivamenteun dossier probatorio strutturato, idoneo a dimostrare in modo puntuale:

  • la sostanza economica dell’attività, attraverso documentazione che evidenzi l’effettiva operatività dell’impresa, la finalità imprenditoriale e continuità dell’attività, il radicamento sul territorio, l’esistenza di una reale struttura organizzativa (personale, sede, contratti, procedure);
  • la genuinità ed effettività del rapporto di lavoro subordinato, mediante elementi quali la presenza di altri soci con poteri di voto o di veto, l’attribuzione di poteri di rappresentanza non esclusivi o comunque limitati, l’organigramma aziendale e la chiara ripartizione delle funzioni, le procedure interne di controllo e reporting cui il socio/gerente-dipendente è tenuto a conformarsi, etc.

Conclusioni

La crescente attenzione dell’Amministrazione finanziaria italiana verso i frontalieri soci di Sagl segna un’evoluzione rilevante e potenzialmente problematica della prassi accertativa. In assenza di un orientamento consolidato e con giurisprudenza ancora in divenire, appare fondamentale predisporre un solido impianto probatorio preventivo e valorizzare gli elementi sostanziali che dimostrano l’effettiva subordinazione del rapporto di lavoro e la genuinità della struttura societaria.

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