2° Contenuto Riservato: Rifiuto del dipendente di prendere servizio nella nuova sede in un’altra Regione: licenziamento legittimo

COMMENTO

A CURA DI STUDIO TRIBUTARIO GAVIOLI & ASSOCIATI | 12 DICEMBRE 2025

È legittimo il licenziamento disciplinare della lavoratrice che rifiuta di prendere servizio nella nuova sede aperta in un’altra Regione. In assenza di un’altra struttura aziendale nella stessa città spetta al dipendente dimostrare le concrete ragioni ostative al trasferimento, così la Corte di cassazione con l’Ordinanza n. 29341/2025 .

Premessa

La Corte di Cassazione con l’Ordinanza n. 29341 del 6 novembre 2025 , ha ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare nei confronti di una dipendente che si era rifiutata di prendere servizio nella nuova sede aperta in un’altra Regione perché quella nella città dove risiedeva aveva chiuso i battenti.

Il contenzioso del lavoro

Nel caso in esame il contenzioso del lavoro vede contrapposti una dipendente e la sua azienda.

La Corte di Appello, con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva respinto il ricorso proposto dalla dipendente nei confronti della sua società finalizzato a far dichiarare l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato il 9 giugno 2020, con cui le era stata addebitata l’assenza ingiustificata per un determinato periodo per non avere preso servizio presso la sede nuova,  dove la società si era trasferita.

I giudici del merito hanno rilevato che fosse documentato e incontestato che la società non aveva più alcuna sede nella città e, di conseguenza, era impossibile la sua assegnazione nella precedente sede o presso altra dipendenza sita nella stessa città. La lavoratrice ha allegato generiche e non meglio precisate “oggettive ragioni familiari” nonché la impossibilità materiale di trasferirsi in un’altra Regione, senza mai precisare le concrete ragioni ostative al suo trasferimento, ovvero quali fossero i motivi che le rendevano impossibile il trasferimento nella nuova sede sebbene comunicatole sin dal febbraio 2020.

La Corte territoriale ha dunque concluso nel senso che, “anche ove il trasferimento fosse stato illegittimo, non sussistono elementi per ritenere che il rifiuto della lavoratrice a rendere la prestazione nella nuova sede assegnatale sia sorretto da buona fede“. La dipendente ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza dei giudici della Corte territoriale con quattro argomentazioni.

Relativamente alla parte che interessa il presente commento la dipendente denuncia l’omesso esame, da parte della Corte territoriale, della questione inerente l’accertamento con effetto di giudicato esterno della sentenza del Tribunale dell’assenza di ragioni tecniche organizzative giustificative del datore di lavoro,  ai fini del trasferimento della lavoratrice e della conseguente assenza di giusta causa di licenziamento, precludendo tale omissione al giudice di procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti, considerando non tanto il mero elemento cronologico quanto i rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute rispetto alla funzione economico sociale del contratto, il tutto alla luce dei reciproci obblighi di correttezza e buona fede.

La sentenza

Osserva la Cassazione che la Corte territoriale  alla stregua del consolidato orientamento di legittimità ha applicato il principio secondo il quale il lavoratore può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, non risulti contrario a buona fede, tenendo conto “della entità dell’inadempimento datoriale in relazione al complessivo assetto di interessi regolato dal contratto” così come “della concreta incidenza del detto inadempimento datoriale su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore“.

Inevitabilmente la “valutazione delle circostanze del caso concreto” spetta al giudice cui compete il merito.

Nel caso di specie, la Corte territoriale ha operato tale valutazione tenendo conto, da un lato, che risultava “documentato e incontestato” che la società dal gennaio 2020 non avesse più alcuna sede in città e, d’altro canto, che la ricorrente non aveva mai precisato le concrete ragioni ostative al suo trasferimento, ovvero quali fossero i motivi che le rendevano impossibile il suo trasferimento.

Rispetto a tali assunti, il motivo propone una diversa ricostruzione dei fatti, implicanti apprezzamenti di merito, come risulta conclamato dal diffuso riferimento, nell’illustrazione della censura, alle risultanze di atti di causa nonché dall’impropria denuncia del vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c (Disponibilità delle prove).

Come ribadito dalle Sezioni unite della Cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre).

La Cassazione evidenzia che nel ricorso della dipendente si censura un “omesso esame di questione e prova”.

In particolare, non viene identificato l’omesso esame di un fatto storico, appartenente alla vicenda storica che ha dato origine alla controversia, quanto “piuttosto l’omessa valutazione della incidenza dell’attività di cessione del ramo d’azienda da (….)  a (….) , dichiarata illecita e nulla dalla sentenza del Tribunale n. (…..)”, passata in cosa giudicata (di cui, peraltro, non vengono riportati i contenuti)”; circostanze attinenti a questioni processuali, per di più affatto decisive, tenuto conto che la declaratoria di inopponibilità della cessione del contratto della lavoratrice alla cessionaria di un ramo d’azienda, conclude la Cassazione,  non determina automaticamente la nullità della cessione d’azienda nel suo complesso.

In conclusione, il ricorso deve essere respinto, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Riferimenti normativi:

Corte di cassazione, Ordinanza 6 novembre 2025, n. 29341

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