COMMENTO
a cura di Studio tributario Gavioli & Associati | 24 Dicembre 2025
Non è necessaria una condotta qualificabile come mobbing a causa della mancanza di un intento persecutorio unificante i singoli comportamenti lesivi, perché può comunque aversi una violazione della tutela delle condizioni di lavoro se il datore consente, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressante per il dipendente, così la Corte di Cassazione con l’Ordinanza n. 31367/2025 .
Premessa
La Corte di Cassazione con l’Ordinanza n. 31367 del 1° dicembre 2025 , ha confermato che i comportamenti vessatori da parte del datore di lavoro anche se non ricadono nel mobbing possono essere oggetto di risarcimento.
Il contenzioso del lavoro
La Corte di Appello, in riforma della pronuncia del giudice di prime cure, ha accolto l’appello delle società soccombenti e ha rigettato la domanda di una dipendente in tema di accertamento di un comportamento di mobbing nell’ambiente di lavoro, nel periodo 2012-giugno 2014, e di conseguente condanna al risarcimento del danno.
ATTENZIONE: La Corte territoriale ha ritenuto di escludere la configurazione di un comportamento di prevaricazione, intimidatorio e vessatorio tenuto in maniera continua e teso ad emarginare e isolare la lavoratrice, in quanto era emersa una condotta spesso contraria alle elementari regole di buona educazione ma pur sempre preordinata al soddisfacimento di necessità ed esigenze di servizio e oggettivamente giustificata da disservizi attribuiti alla lavoratrice stessa.
La Corte territoriale ha aggiunto che le patologie psicosomatiche lamentate dalla lavoratrice e acclarate in sede di consulenza tecnica d’ufficio non apparivano causalmente collegate a “precise condotte datoriali di oggettiva valenza mobbizzante“.
Avverso la sentenza sfavorevole la dipendente è ricorsa in Cassazione sostenendo che la Corte territoriale aveva assunto una decisione contraria al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia di mobbing che non esclude che un datore di lavoro irrispettoso e che viola le regole poste a tutela dei lavoratori non possa adottare comportamenti vessatori.
La pronuncia impugnata, inoltre, si discosta totalmente e immotivatamente dalle approfondite valutazioni medico-legali e scientifiche della CTU.
APPROFONDIMENTO: La ricorrente contesta, inoltre, che la Corte territoriale ha escluso la configurazione di una condotta di mobbing del datore di lavoro sottolineando la mancanza di un intento persecutorio tale da unificare i vari episodi dedotti nel ricorso introduttivo del giudizio ed emersi nell’ambito della istruttoria, e riconducendo il comportamento autoritario ed irrispettoso delle regole fissate a tutela dei lavoratori alla conflittualità generale che contraddistingueva l’ambiente di lavoro e al soddisfacimento di esigenze di servizio.
Le cause del mobbing secondo la giurisprudenza
Sull’argomento si segnala la sentenza della Corte di Cassazione n. 27110 del 15 novembre 2017, che ha rilevato sulla base di una giurisprudenza consolidata, che ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi, il cui accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato:
- una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
- l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
- il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
- l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
Elementi questi che il lavoratore ha l’onere di provare in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697 cod. civ. e che implicano la necessità di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell’intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla.
APPROFONDIMENTO:La sentenza della Cassazione, S.U. n. 8438/2004, ha affermato espressamente che “il termine mobbing può essere generalmente riferito ad ogni ipotesi di pratiche vessatorie, poste in essere da uno o più soggetti diversi per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro, e solo con riguardo alla specifica fattispecie che gli era devoluta ha affermato che venivano in rilievo violazioni di specifici obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di impiego, facendo riferimento ad atti di gestione del rapporto di lavoro che, indipendentemente da una concreta correlazione con un disegno di persecuzione reiterata, trovavano un diretto referente normativo nella disciplina della regolamentazione del rapporto e ricevono da questa la loro sanzione di illiceità”.
La responsabilità del datore di lavoro sulle condizioni di lavoro del dipendente
I giudici di legittimità hanno rilevato che la giurisprudenza di legittimità già con diverse pronunce, ha sottolineato che una situazione di costrittività ambientale è configurabile anche a prescindere dalla concreta individuazione di mobbing e da una eventuale particolare sensibilità ovvero suscettibilità del dipendente.
ATTENZIONE: Occorre, infatti, ricordare che, per orientamento consolidato della Cassazione, la violazione da parte del datore di lavoro dell’art. 2087 cod. civ. ha natura contrattuale e, dunque, il rimedio esperibile dal dipendente è quello della responsabilità contrattuale, con tutte le conseguenze del caso, soprattutto in tema di prescrizione e onere della prova.
La giurisprudenza di legittimità si è univocamente espressa nel senso che, in tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni dell’art. 2087 c.c., la parte che subisce l’inadempimento non deve dimostrare la colpa dell’altra parte, dato che ai sensi dell’art. 1218 c.c. è il debitore-datore di lavoro che deve provare che l’impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o comunque che il pregiudizio che colpisce la controparte deriva da causa a lui non imputabile, pur se è, comunque, soggetta all’onere di allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l’asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell’esercizio dell’impresa, debbono essere adottate per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (cfr. Cass. n. 8855/2013; Cass. n. 20533/2015; Cass. n. 14468/2017).
APPROFONDIMENTO: Evidenziano i giudici di legittimità che la Cassazione ha sottolineato che ove non sia configurabile una condotta di mobbing, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, può pur sempre essere ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi (Cass. n. 3692/2023).
Anche recentemente, la Cassazione (Cass. n. 2084/2024) ha ribadito che una situazione di stress può rappresentare fonte di risarcimento del danno subito dal lavoratore, ove emerga la colpa del datore di lavoro nella contribuzione causale alla creazione di un ambiente logorante e determinativo di ansia, come tale causativo di pregiudizio per la salute.
In conclusione per la Cassazione la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte d’Appello di che, in diversa composizione, procederà ad un nuovo esame della controversia, uniformandosi ai su affermati principi, e provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
Riferimenti normativi:
- Codice civile, artt. 2087 e 2697
- Corte di Cassazione, Ordinanza 1° dicembre 2025, n. 31367
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